L’aquila bicipite, dopo la Santa Croce, è probabilmente il simbolo più riconoscibile dell’Impero romano d’Oriente. Al giorno d’oggi lo si può notare facilmente su alcune chiese cristiane orientali (persino in qualche moschea), sugli stendardi che svettano durante le rievocazioni storiche o, banalmente, sui più disparati souvenir turistici. L’aquila bicipite, o bicefala se preferite, rimanda istantaneamente alla memoria di Costantinopoli. Eppure la sua storia è molto più antica e complessa di quanto molti possano immaginare.

Le ipotesi sul significato intrinseco dell’aquila bicipite per l’Impero bizantino sono tante, ma le più convincenti si contano sulle dita di una mano. Chi mastica un po’ d’araldica o di vessillologia, allora saprà già che le due teste separate a partire dal collo possono indicare la duplice sovranità dell’imperatore sia in materia secolare che religiosa, o in alternativa, l’estensione del potere imperiale sull’Oriente così come sull’Occidente. Come si è detto nell’introduzione, l’associazione fra il simbolo e il destino della Seconda Roma è praticamente immediata e in tanti, alla luce di ciò, credono che l’aquila bicefala sia stata la “bandiera ufficiale” dell’Impero romano d’Oriente fino al 1453. E allora, arrivati a questo punto, chiediamoci: quanto di vero c’è in questa correlazione e, soprattutto, quanto sono attendibili le (poche) fonti antiche che ce ne parlano?
La prima cosa che viene in mente, unendo i puntini del discorso, è che l’aquila bicipite sia un derivato orientale della ben più iconica aquila imperiale romana. In effetti è molto probabile che l’aquila monocefala romana, la stessa che campeggiava sugli stendardi delle varie legioni, abbia influenzato poi i romani d’Oriente. Ma l’aquila bicipite non è affatto un’invenzione bizantina; sarebbe un grossolano errore pensarlo.

Bestie mitologiche con due o più teste compaiono nell’arcaica iconografia mesopotamica a partire dal III millennio a.C. Furono poi gli Ittiti a dare un tono “regale” al motivo, adottandolo come simbolo indiscusso dell’autorità. Ne abbiamo una straordinaria testimonianza archeologica in Anatolia centrale, precisamente a Alacahöyük. Sul pilastro orientale della Porta della Sfinge si può scorgere un monumentale rilievo di un’aquila bicipite che afferra due lepri. Gli storici moderni concordano nel dire che l’imponente arte ittita abbia fatto breccia nei popoli che li hanno succeduti. Ancora i Micenei si avvalsero della creatura a due teste per le decorazioni funebri o per l’oreficeria.
Poi segue uno stacco di circa due millenni in cui nessuna aquila bicipite sembra saltare fuori (almeno stando alle prove materiali e documentali in nostro possesso). Si sono riscontrati dei casi artistici isolati in Francia e in Bulgaria, entrambi risalenti al X o al massimo all’XI secolo.
Tornando a Costantinopoli, è bene specificare che l’aquila monocefala imperiale rimase un simbolo comune fino al X secolo circa. Intorno all’anno mille la sua controparte bicefala iniziò ad imporsi nell’arte bizantina, ma è solo con i Paleologi – dunque nella fase conclusiva dell’impero – che il motivo divenne, se non ufficiale, quantomeno ufficioso.
Una teoria contemporanea, avanzata da storici greci alla metà del Novecento, lega l’introduzione dell’emblema all’imperatore Isacco I Comneno (1057-1059). La dinastia dei Comneni era originaria della Paflagonia, regione storica sul versante settentrionale dell’Anatolia. Una delle città più importanti della Paflagonia era a quel tempo Gangra (la turca Çankırı), storicamente associata alla già citata aquila bicipite d’origine ittita. Simbolo poi diffuso dai Comneni nell’intero impero.

Nuovamente mi ritrovo a fare una precisazione: negli stessi anni in cui il basileus introduceva il nuovo motivo imperiale (pur non dichiarando da nessuna parte la sua valenza ufficiale), l’aquila bicipite appariva in moschee, palazzi sultanali, fortezze e caravanserragli selgiuchidi. Nel Sultanato di Rûm e nei vari beilicati turchi fu d’uso comune in quanto forte simbolo magico-animistico almeno fino alla metà del XIII secolo.
Al collasso dell’Impero latino di Costantinopoli e con la restaurazione dell’autorità dei Paleologi a partire dal 1261, l’aquila bicipite s’impose definitivamente nell’iconografia bizantina. Parliamo pur sempre degli ultimi duecento anni di vita di un impero che dal V secolo incarnava l’eredità imperiale di Roma. Capite la portata dell’azzardo nel sostenere che il motivo sia rappresentativo dell’intera storia romana orientale?

Quali sono gli esempi artistico-visivi sui quali riscontriamo l’aquila bicipite? A dire il vero pochi. Nel monastero di Dionysiou, sul Monte Athos, in Grecia, è ravvisabile una crisobolla del 1374 raffigurante Alessio III Comneno, imperatore di Trebisonda, e l’imperatrice consorte Teodora Cantacuzena. L’abito di quest’ultima presenta una decorazione con aquile bicipite dorate su sfondo rosso. Occasionalmente sui cuscini (suppedion) ai piedi degli imperatori era ricamato l’emblema imperiale, come dimostrano i ritratti di Michele VIII e Andronico II. Mentre l’unica occasione in cui un’aquila bicefala bizantina compare in una rappresentazione artistica occidentale risale al Concilio di Firenze.
Dal momento che uno degli scopi principali delle tre riunioni conciliari (Basilea, Ferrara e Firenze) volute da papa Martino V nel 1431 era l’unificazione della Chiesa cattolica romana d’Occidente con la Chiesa Apostolica Ortodossa, naturale doveva essere la partecipazione all’evento del basileus Giovanni VIII Paleologo. Egli giunse in Italia nel 1438 e del suo arrivo ci è rimasta una testimonianza artistica davvero eccezionale. Sulla Porta del Filarete della Basilica di San Pietro, in Vaticano, si distinguono tre riquadri sovrapposti. In quello più basso è facile individuare l’aquila bicipite scolpita sulla nave che trasporta l’imperatore bizantino verso le coste italiche.

Durante la fase terminale dell’Impero romano d’Oriente e successivamente alla caduta del 1453, molti regni europei (principalmente balcanici) seguirono il “modello iconografico bizantino“. Furono soprattutto i serbi a farlo, ma sulla stessa falsa riga proseguirono anche i bulgari o gli albanesi di Giorgio Castriota Scanderbeg. Dopo il 1472 se ne appropriò il Granducato di Mosca, i quali regnanti si autoproclamarono eredi legittimi del prestigio imperiale romano. La cosiddetta Terza Roma scelse l’aquila bicipite per rendere ancor più marcato il legame con Costantinopoli. L’aquila bicipite rimase un motivo importante nell’araldica delle famiglie imperiali della Russia, basti pensare ai Romanov.
Anche dopo aver detto ciò, attribuire il motivo dell’aquila bicefala alla sola Bisanzio sarebbe scorretto. In primis perché il simbolo vanta e vantava anche secoli fa una tradizione multiculturale, a cui i romani orientali attinsero per soli due secoli della loro lunghissima storia. In secondo luogo, non esiste ad oggi una prova iconografica o letteraria che indichi esplicitamente come il motivo fosse il simbolo ufficiale dell’impero costantinopolitano.