Storia Che Passione
Khara-Khoto Marco Polo tra le dune mongole della Città Nera

Khara-Khoto e Marco Polo, tra le dune mongole della “Città Nera”

Prima del massacro, prima del rapido spopolamento e dell’inevitabile abbandono, la vista delle imponenti mura di Khara-Khoto (dal mongolo “Khar Khot”, traducibile come “Città Nera”) suggerivano placido conforto nel cuore dei mercanti in transito lungo la Via della Seta. Secondo tradizione, questa rassicurante consapevolezza si spense bruscamente a seguito di un episodio bellico andato in scena nel 1372. L’evento trasformò in leggenda il trascorso della città, un passato già tramandato sottoforma di racconto letterario da Marco Polo, poi riscoperto archeologicamente solo agli inizi del XX secolo. Scopriamo assieme la vera anima che si cela tra le rovine di un antico centro urbano, oramai “casa per scorpioni e fantasmi” alludendo alla descrizione che i locali ne fanno.

A fondare la città nel 1032 furono i Tangut (anche detti Xia), popolo che si spartì il territorio cinese tra X e XIII secolo. Ciò prima del travolgente avvento mongolo. L’impero Tangut, rintracciabile tra le aride terre della Cina nord-occidentale e della Mongolia meridionale, fece di Khara-Khoto un fiorente centro di commercio e cultura. Ma l’importanza della Città Nera era anche di carattere strategico-territoriale, in quanto polo protettivo per tutti coloro che intendevano soggiornare all’interno delle mura. La ricchezza di Khara-Khoto si costruì anche per via dei rifornimenti concessi ai mercanti transitanti per la Striscia di Ejin. D’altronde quella cinta muraria alta 10 metri e spessa 4 doveva per forza di cose ispirare una certa protezione.

Contrariamente alla tradizione orale, che colloca l’età del declino in coincidenza con la conquista di Gengis Khan nel 1206, la città mantenne inalterato il suo status commerciale sotto il nuovo dominio. Anzi, essa godé particolarmente della ben nota Pax mongolica. Testimonianza diretta di questo benessere perseverante è Il Milione di Marco Polo, che si rivolge all’urbanità con il nome di “Etzina“.

L’esploratore veneziano, diretto osservatore della maestosità economica mongola costruita da Kublai Khan (5° khagan dal 1260 al 1294), indicò i risvolti di quel sentito lusso analizzando la vita cittadina di Khara-Khoto. Così si esprime nel suo capolavoro letterario: “Or truova Eezima dopo dodici giornate, ch’è a capo del diserto del sabbione. Ed è della provincia di Tangut, e sono idoli. Egli hanno cammelli assai e bestie assai; e quivi nascono falconi lanieri assai e buoni; egli vivono di lavoro di terre, e sono mercatanti … Mi fa meraviglia che la città sia così grande e maestuosa”.

Maestosità, appunto. Eppure questa non sarebbe durata a lungo. Quando la Dinastia Ming scacciò i mongoli dai territori della Cina, essi si rifugiarono in massa nella regione di Khara-Khoto. Così l’esercito imperiale cinese si diresse nel 1372 verso la Città Nera, assediandola per mesi. Arrivarono a deviare il corso del fiume Ejin, vitale per l’approvvigionamento idrico cittadino. La condanna si declinò in una moria per sete, fin quando il reggente dell’armata di resistenza, il generale Khara Bator, non si suicidò con tutta la famiglia (una morte onorevole rispetto alla resa), di fatto consegnando i pochi rimasti alle brame dei soldati Ming, che resero i più sfortunati schiavi – ed è tutto dire.

A seguito dell’assedio, la città si spopolò, vedendosi vuota e abbandonata alle porte del XVI secolo. Le dinastie imperiali cinesi non si preoccuparono di mantenere un centro urbano così lontano, ai margini del deserto del Gobi. Di lei se ne persero le tracce, fino ai primi anni dello scorso secolo. Gli esploratori russi Grigory Potanin e Vladimir Obruchev ne riscoprirono le rovine tra il 1908 e il 1909. Oltre 2.000 manufatti (tra cui libri Tangut e manoscritti buddhisti eccezionalmente conservati) percorsero chilometri e chilometri, raggiungendo San Pietroburgo, per l’esattezza lungoneva del Palazzo 34, indirizzo dell’Ermitage. Ulteriori indagini archeologiche a trazione britannica seguirono fino agli anni ’30. Da segnalare sono i 3.500 tra dipinti e oggetti artistici scoperti nella Città Nera dal team archeologico spedito dall’Inner Mongolian Institute of Archaeology.

Le immagini e i resoconti dell’epoca trasmettono un senso di estraniante perdizione, perché tracce sensibile di un passato brillante, offuscato all’improvviso da un assedio duro (anche se un po’ romanzato) e devastante, per conduzione ed esito. Le rovine di Khara-Khoto sopravvivono e, salvo ingerenze turistiche dell’ultima ora, continueranno a farlo protette dalle arancioni dune del Gobi.