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Foto del giorno: le conseguenze dell'adulterio nella Mongolia del 1913

Foto del giorno: le conseguenze dell’adulterio nella Mongolia del 1913

Fotografia di Stéphane Passet, Mongolia meridionale, luglio 1913. Una donna è rinchiusa all’interno di una cassa di legno, dalla quale fuoriescono solamente la testa ed un braccio. Non si tratta di una messinscena, ma di una vera e propria punizione corporale. La condanna all’inedia, secondo la tradizione delle steppe centrasiatiche, è scaturita dall’accusa di adulterio, ricaduta sulla povera malcapitata in quel frangente di primo Novecento. Lo scatto è in realtà parte di un più ampio progetto fotografico, nato dalla mente del banchiere Albert Kahn, e mette in evidenza in tutta la sua autenticità una delle più grandi problematiche che attanaglia chi solitamente sta dietro una macchina fotografica: il distacco dalla realtà che si immortala.

Foto del giorno: le conseguenze dell'adulterio nella Mongolia del 1913

Il contesto prima di tutto. La fotografia non sarebbe esistita se il banchiere nonché filantropo francese Albert Kahn non avesse partorito il progetto “Les archives de la planète” ovvero “Gli archivi del pianeta”. Di cosa si trattò? Fu un mastodontico progetto fotografico della durata di 23 anni – dal 1908 al 1931 – che portò alla pubblicazione di 72.000 fotografie a colori e 183.000 metri di pellicola. La più grande ambizione del piano non risiedeva nella sua estensione cronologica o nel suo incredibile contenuto, bensì nel suo intento primario: fotografare la cultura umana.

Vorrei tanto concentrarmi sulla strutturazione de “Gli archivi del pianeta” ma non è questo lo scopo dell’articolo. Il nostro focus deve ricadere sulla singola fotografia scattata in quell’afoso luglio 1913 in Mongolia. Stéphane Passet contribuiva all’epoca al progetto di Kahn in veste d’inviato per l’Asia centrale. Durante il suo soggiorno in Mongolia, il fotografo ebbe occasione di imbattersi in questa scena cupa, se non altro straziante.

adulterio Albert Kahn

La donna accusata di adulterio doveva scontare la peggior pena: la morte per fame. La scatola dal cui foro laterale uscivano testa e braccio era al contempo residenza e tomba per la vittima. Infatti il sarcofago di legno si presentava come una forma di detenzione e/o punizione pubblica, usata per crimini considerati gravi secondo la legge tradizionale mongola.

Alla persona veniva permesso solo di ricevere cibo e acqua per mezzo di ciotole poste a terra. Spesso, questa forma di detenzione avveniva in aree isolate, come dimostra lo scatto di Passet.

Sebbene la fotografia risalisse al 1913, essa non salì agli onori della cronaca fino al 1922, anno della sua pubblicazione. Un numero del National Geographic raffigurava la tradizionale condanna all’inedia fra le popolazioni mongole. La didascalia della foto recitava “prigioniera mongola all’interno di una scatola”. Furono gli editori – i quali ebbero dei contatti con Passet – a riportare per primi la versione sull’adulterio e sulla conseguente pena.

adulterio Mongolia nel 1912 Gli archivi del pianeta

Passet non poté intervenire ed è questo il punto centrale dell’intera questione. Perché, da umano ad umano, il fotografo non si assunse la responsabilità di salvare la vita di una donna lasciata a morire nel modo più atroce possibile? Il motivo reale del mancato intervento gioca con i delicatissimi e discutibilissimi fili della morale e dell’antropologia.

Una delle direttive principali del progetto fotografico – così come di qualunque ricerca antropologica che abbia senso di esistere – era quella di non intervenire nelle logiche tradizionali della cultura con cui si entrava in contatto. Anche se ciò avesse comportato l’indifferenza più grigia e distaccata. Passet non si svincolò dal principio, scattò la fotografia e proseguì per la sua strada. Il destino della malcapitata, sebbene non sia noto, è facilmente presupponibile.