Almanacco del 17 dicembre, anno 1637: una coalizione di rōnin e contadini, per lo più cattolici, dà vita alla nota rivolta di Shimabara. Quello scoppiato il 17 dicembre 1637 fu l’ultimo conflitto in armi abbastanza rilevante a coinvolgere il Giappone del periodo Edo, almeno fino ai rivolgimenti del XIX secolo. La rivolta di Shimabara ebbe i caratteri dell’insurrezione popolare, benché sostenuta da alcune frange dell’aristocrazia latifondista, posta in essere per motivi religiosi ed economici assieme. Per chi si approccia alla storia nipponica d’età moderna, la notorietà dell’evento salta subito all’occhio. Si capisce perché solamente dando uno sguardo all’immediato passato. Partiamo dunque dalla seconda metà del XVI secolo.

Più volte su questi canali abbiamo trattato il capitolo dell’evangelizzazione del Giappone, con tutti i risvolti sociali, politici, diplomatici, militari ed economici del caso. Esempi pratici di questo affascinante – per il sottoscritto, almeno – intreccio risultano essere la vicenda del samurai giramondo Hasekura Tsunenaga, o ancora, l’indicativa sorte del gesuita Carlo Spinola (episodi sui quali invito a riflettere per dare un senso maggiore al contesto storico).
In entrambi i casi, la tematica che fa da sfondo è quella della penetrazione del cristianesimo nel Sol Levante e le modalità attraverso le quali attori illustri della storia giapponese opposero resistenza al fenomeno, ora considerato vantaggioso (Oda Nobunaga era di questo pensiero), ora valutato non solo come negativo, ma addirittura come una minaccia da dover estirpare con la forza (Toyotomi Hideyoshi, oltre ai primi shōgun Tokugawa).

Se il punto di rottura originario si ebbe sotto il governo del secondo Grande Unificatore Toyotomi Hideyoshi, al quale si devono imputare le prime restrizioni in senso anti-cristiano, oltre che le prime persecuzioni (famosa e da noi già trattata è la crocifissione dei 26 kirishitan in data 5 febbraio 1597), fu con il consolidamento dello shogunato Tokugawa che il vento della repressione soffiò con maggiore veemenza. Nel 1614 il bakufu vietò per legge la professione pubblica e privata della fede cattolica (chiudendo un occhio sul protestantesimo, caro agli olandesi con i quali si commerciava). Ne scaturirono due reazioni: la prima riguardò l’allontanamento di quasi tutti i missionari gesuiti; la seconda invece fu la tacita prosecuzione del culto cristiano, anche se bandito.
Da Edo si promulgarono una serie di direttive volte a “disintossicare” il Giappone dal venefico cattolicesimo. Le più ragguardevoli forse già le conoscete. Ad esempio si elaborò il “sistema del certificato“, per il quale si obbligavano le persone a frequentare dei corsi buddhisti all’interno dei templi per poi ricevere l’attestato sulla fedeltà all’ortodossia e alla shogunato. Altro meccanismo noto fu quello del fumie, il calpestamento dell’icona sacra. Chi accettava di passare col piede sopra l’immagine della Vergine Maria o del Cristo, allora sfuggiva alla morte per esecuzione. Chi no, beh, diventava un martire.
In questo clima, nel 1637 scoppiò la celebre rivolta di Shimabara, nell’omonima provincia meridionale. A sorreggere il governo locale erano i daimyō della famiglia Matsukura. A partire dagli anni ’30 del Seicento, questi attuarono una serie di politiche che portarono enorme malcontento nel ceto popolare della provincia. Anzitutto si accostarono alla corrente shogunale, perseguitando tutti i cattolici della regione (e ne erano a decine di migliaia). Ma anche in campo economico-tributario non mancarono di far sentire il loro peso.

Matsukura Katsuie aumentò le tasse a dismisura per dare seguito alla politica dell’Ikkoku-ichijō (“un castello in ogni provincia”), dettata dai Tokugawa. Ciò si traduceva nello smantellamento dei castelli storici di Hara e Hino, e nella contemporanea edificazione del castello di Shimabara. Tutto ciò accadeva mentre i contadini morivano di fame e non avevano di che pagare gli esattori. Di fronte all’insolvenza, l’autorità rispondeva molto spesso e molto volentieri con il sopruso.
La rivolta scoppiò il 17 dicembre 1637 perché in quel giorno venne assassinato il funzionario della prefettura di Shimabara incaricato della riscossione delle tasse. I primi a muovere le armi contro i soldati dei Matsukura furono tanto i contadini (per lo più cattolici, ma non tutti lo erano) quanto i rōnin, magari caduti in disgrazia per via della loro fede cattolica.

Da Shimabara la notizia si sparse in fretta, scaturendo effetti opposti. Quando a Nagasaki seppero dei tumulti, inviarono contingenti armati per la soppressione. Invece quando le voci giunsero nel vicino arcipelago di Amakusa, i popolani presero ad assaltare i magazzini di riso. La fiumana riottosa prese d’assedio il castello di Shimabara in dicembre, e quando non riuscì a conquistarlo, si rivolsero a quello di Hara, che invece espugnarono. Quello sarebbe divenuto il centro gravitazionale dell’intera rivolta, in quel momento già capeggiata dal rōnin di appena 16 anni Amakusa Shirō.
Nel castello di Hara gli insorti portarono anche famiglie, e quindi donne, anziani e bambini. Le cifre esatte non le conosciamo, ma una stima attendibile indica un numero che va dalle 27.000 alle 37.000 persone. L’allora shōgun Tokugawa Iemitsu diede ordine di assediare il castello in mano ai ribelli e, in caso di successo, di trucidare chiunque al suo interno. Dopo mesi di difficili operazioni (l’esercito shogunale chiese prima aiuto agli olandesi, poi perse anche il suo generale in comando, accumulando una forza d’attacco pari a 125.000 uomini), i circa 30.000 di Hara cedettero.

Fece seguito un’ecatombe senza precedenti. A decine di migliaia vennero decapitati, i corpi gettati nelle fosse comuni attorno al castello che provarono a difendere. Quest’ultimo venne demolito una volta per tutte. Il corpo sventrato del capo ribelle Amakusa Shirō diventò oggetto d’esposizione alle porte di Nagasaki. A pagare con la vita furono anche i daimyō incaricati di contenere la rivolta scoppiata il 17 dicembre 1637.
Dopo Shimabara, si concluse definitivamente l’epoca dell’evangelizzazione in Giappone. Il governo shogunale interruppe le ultime relazioni commerciali con il Portogallo. È del 1639 l’editto che proibisce alle navi lusitane lo sbarco nei porti nipponici. Le politiche anticattoliche si fecero più aspre, anche se il cattolicesimo non sparì del tutto, sopravvivendo a due secoli e mezzo di persecuzione.




