Almanacco del 5 giugno, anno 1945: a seguito di un processo durato poco meno di un giorno, il criminale di guerra italiano Pietro Koch viene condannato alla pena capitale, da eseguire mediante fucilazione presso Forte Bravetta, Roma. La sua morte è l’atto conclusivo di un biennio vissuto all’insegna della brutalità e della violenza. Crudeli gesta che non potevano restare impunite, vista l’attività criminale – sottaciuta dalle forze collaborazioniste e occupanti – svolta da Koch nei due anni successivi all’armistizio dell’8 settembre ’43.

Ma chi era Pietro Koch? per metà tedesco e per metà italiano, Pietro nacque a Benevento nel 1918 ma si trasferì a Roma, assieme a tutta la famiglia, negli anni ’30. Durante la Seconda guerra mondiale, si arruolò nel Regio esercito, servendo come ufficiale. Dopo l’armistizio di Cassibile, si schierò con la Repubblica Sociale Italiana. Convintamente filo-tedesco, ottenne con rapidità potere e influenza grazie ad una spiccata ferocia, gradita ai comandi delle SS operativi in Italia.
Grazie alle disponibilità concesse dagli occupanti (Gestapo a Roma) e dagli alti papaveri di Salò, Koch poté mettere in piedi un’organizzazione a lui fedele. Ufficialmente si chiamò “Reparto Speciale di Polizia Repubblicana”, ma sarebbe passata alla storia come “Banda Koch“. Con sede prima a Roma, poi a Milano, il gruppo aveva un solo obiettivo: reprimere la Resistenza. Le sue attività si estesero altresì ad operazioni di rastrellamento, torture, omicidi arbitrari e deportazioni.

Una settantina di unità circa rispondevano perentoriamente alle spietate direttive di Koch. Operativa dal dicembre del 1943, fu però tra il gennaio e il maggio dell’anno successivo che la banda diede il suo “meglio” (si colga l’amara ironia di quanto scritto). Gli antifascisti a Roma, in particolar modo molti esponenti del Partito d’Azione, subirono parecchio le incursioni e le retate del gruppo. Fu per mano degli uomini di Koch se 21 membri della Resistenza affiliati al PdA finirono nel novero delle vittime delle Fosse Ardeatine.

La banda non mirava esclusivamente a sgominare il fenomeno partigiano. Sacro era il dovere (e per loro “l’onore”) di suscitare terrore, spavento, panico fra i civili inermi, ebrei, oppositori di ogni genere, semplici sospettati sulla base di nessuna prova. Tutte categorie che se malauguratamente fossero incappate nella banda, avrebbero conosciuto l’orrenda sorte della tortura, della privazione, il dolore nella sua veste più meschina. Pratiche che erano di casa in alcune delle sedi più tristemente noti, sparse tra Roma, Firenze e Milano.
Le atrocità deliberatamente commesse da Pietro Koch e dalla sua cricca terminarono con il crollo definitivo del regime fantoccio di Salò e con la fine della guerra in Europa. Nella primavera del 1945 le forze Alleate lo arrestarono (fu lui a presentarsi in questura a Firenze il 1° giugno e ad autodenunciarsi).

Il 4 giugno, presso l’Università La Sapienza di Roma, iniziò il processo a suo carico. Prima dell’ora di pranzo la corte decretò la condanna alla pena capitale. Il giorno successivo, il 5 giugno 1945, un plotone d’esecuzione riunito a Forte Bravetta puntò le bocche di fuoco sulla schiena ricurva del tenente Koch. Alle ore 14:21 la raffica di proiettili fece il suo dovere. Dell’esecuzione si conservano i filmati. Le stesse autorità disposero la registrazione dell’evento data la fama del condannato. Dietro la cinepresa c’era Luchino Visconti, che a suo tempo conobbe detenzione e torture per mano della Banda Koch.
Il caso conclusosi il 5 giugno ’45 aprì la stagione dei processi contro collaborazionisti e criminali di guerra in Italia. Stagione che – come purtroppo in tanti sanno, altresì tanti ignorano – ebbe una vita tanto breve quanto travagliata.