Robert Norman Swanson, rinomato medievista britannico, scrisse nel 1999 un libro incentrato sull’impattante rivoluzione culturale europea dei secoli che vanno dall’XI al XIII. Il testo accademico s’intitola The Twelfth-Century Renaissance (Il Rinascimento del XII secolo) e può attirare l’attenzione di un lettore per una tesi – fra le tante che si possono scorgere al suo interno – abbastanza spinta, per quanto giustificata dal contesto in cui viene maliziosamente inserita. Suddetta tesi propone l’esistenza di un “terzo genere“, non meglio definito, che contraddistinse i monaci nel pieno del Medioevo. Un terzo genere simile ad un limbo, per il quale il buon asceta di turno non doveva essere né donna, né pienamente uomo. Chiaramente si tratta di una provocazione letteraria, ma è sulla base di quest’ultima che voglio affrontare con voi un discorso storico (e storiografico) incentrato sulla mascolinità monastica.

Prendiamoci il nostro tempo e iniziamo questa chiacchierata concentrandoci su un uomo che la Chiesa cattolica venera come santo: Geraldo d’Aurillac. San Geraldo d’Aurillac (855-909), fondatore dell’omonima abbazia, fra i più antichi cenobi benedettini del continente, fu un tipetto insolito, sia come laico, sia come santo. Egli fu responsabile diretto della gestione dei territori di Aurillac (in Alvernia, Francia centro-meridionale) in un Regno dei Franchi Carolingi in progressiva disgregazione. È la sua agiografia, scritta nel X secolo da un altro importante uomo di chiesa, Oddone di Cluny, a dirci qualcosa di peculiare su di lui: il suo innato disgusto per la vita signorile.

Geraldo d’Aurillac non amava cacciare, né si dilettava nei banchetti. I grandi trionfi militari li ottenne insegnando alle sue milizie ad usare il dorso della spada invece del filo (consiglio che suonava un po’ come “difenditi prima di attaccare”). Ciò che davvero tormentava il signore d’Aurillac era tuttavia la preservazione della castità. Mai e poi mai cercò moglie, infatti morì solo. Un chiodo fisso che lo spinse ad atti “estremi”. Se qualche lascivo “pensiero notturno” l’avesse solo sfiorato, avrebbe chiesto al servitore di turno un cambio di vesti, un panno e una tinozza piena d’acqua, così da “fuggire da quella macchia del corpo, formatasi nel sonno, lavata via non solo dall’acqua, altresì dalle penitenti lacrime”. Dettagli abbastanza originali per un’agiografia, non trovate?

Moltissimi santi prima di Geraldo divennero tali a causa della loro sacra devozione, di frequente scaturita in martirio. Insomma, le questioni corporali non avevano chissà quale relazione con il raggiungimento della santità. Invece per il signore d’Aurillac fu una tematica assolutamente centrale. Qui non si vuole affermare che il vecchio Geraldo fosse il primo a contrapporre la religiosa castità al potere corruttivo del desiderio carnale. Sarebbe sviante oltre che falso. No, semmai voglio porre l’accento sulle parole scelte da Oddone di Cluny, enfatiche di un pensiero che andava man mano affermandosi in quell’Europa attraversata dalle riforme monastiche del X secolo. Riforme appoggiate da Roma che introdussero il concetto di mascolinità monastica e, secondo Swanson, di terzo genere.
Mascolinità monastica – termine di cui si avvale la storiografia moderna, non di certo quella medievale – significava anzitutto un netto rifiuto a tutti i tradizionalismi secolari che definivano un uomo. No alla violenza, no al matrimonio e, Dio ce ne guardi, no al sesso. L’impurità, anche se accidentale, andava condannata. In questo esatto senso andarono le riforme che la Santa Romana Chiesa, sospinta e motivata dai vari ordini monastici (cistercensi e benedettini in primis), approvò. Acquisivano un certo valore anche per affrontare problematiche inerenti la dilagante corruzione ecclesiastica, la fastidiosa autonomia di alcune chiese lontane da Roma e il celibato del clero.

Il ravennate benedettino Pier Damiani (1007-1072), grande riformatore e moralizzatore della Chiesa, fedelissimo di papa Leone IX, scrisse parecchio a riguardo. Dal suo pugno uscirono fuori centinaia di saggi, lettere e trattati teologici sui problemi della Chiesa. Uno su tutti: i rapporti sessuali per i chierici. Pier Damiani sosteneva che il sesso, assieme a tutto ciò che ad esso era correlato (perciò anche la sfera del femminile), scadeva nel demoniaco. Sì, perché il desiderio della carne era la tentazione depravata del diavolo. Parole alle quali poi dava un seguito pratico ben più sfumato. Egli infatti ammetteva come per i più giovani, anche se avviati sulla strada ecclesiastica, poteva essere difficile trattenersi. La soluzione da lui proposta? Il digiuno, intenso e reiterato.
Questa mascolinità monastica, vivida nel pensiero di San Geraldo e ispirata da Pier Damiani, faceva a botte con le aspettative secolari sul ruolo degli uomini nella società di quel tempo. Ruolo che prevedeva difesa della terra e della famiglia. Se per la prima bastava una spada, per la seconda poteva (doveva) servire anche un erede legittimo. Dunque, nel momento in cui un monaco non poteva (ancora) impugnare per giusta causa un’arma e gli veniva vietata la prerogativa di generare un figlio, allora quello stesso monaco poteva dirsi uomo? Di certo donna non era, ma neppure pienamente uomo. Allora Robert Swanson nel 1999 tirò in ballo questo terzo genere.

Dissesto interiore che magari a tanti non diceva niente, abituati a pensarsi monaci e per questo automaticamente celibi. Ma a qualcun altro pesava, eccome se pesava. Il teologo Guiberto di Nogent (1055-1124) scrisse un testo emblematico dell’interiorità di un uomo medievale come lo era lui e come lo erano tanti altri. Nelle sue Monodiae, l’abate di abate di Nogent-sous-Coucy diceva: “Con la graduale crescita del mio giovane corpo, mentre la vita di questo mondo cominciava a risvegliare il mio cuore pruriginoso con desideri e brame carnali adatti alla mia statura, la mia mente si rifugiava ripetutamente nel ricordare e soffermarsi sul dovere a me imposto e sul ruolo nel mondo per me dall’alto indicato”.

Visto che secondo i canoni sociali di quel pieno Medioevo i monaci appartenevano a questo fantomatico terzo genere, essi dovettero “riscrivere” il senso della loro posizione nella società. Non solo dovevano essere in grado di renderla naturale agli occhi di un laico, ma dovevano arricchirla di connotati ammirevoli. Pertanto la mascolinità monastica iniziò a basarsi sull’ostentazione di una riflessività e moderazione che mai avrebbe contraddistinto un uomo comune. Era il potere di trattenersi, di controllare il proprio corpo e ancor di più la propria mente. In definitiva, così facendo si toccava con mano l’acme della devozione cristiana.