Di eventi particolari la storia medievale ne è stracolma, ma questo – per quanto di complicata verificabilità – si attesta fra i più assurdi e bizzarri. È la vicenda di un esercito che, pur risultando vittorioso sul campo di battaglia, si è poi ritirato nella più totale frenesia, autodistruggendosi infine. A causa di una controffensiva o di un’imboscata nemica? Lo penserebbe chiunque; e invece no, l’esito del disastro fu da imputare alla paura, la vera protagonista di quello scontro che (forse) ebbe luogo durante la prima metà del X secolo.

Lo scenario è quello della perenne contesa fra Costantinopoli e Califfato Abbaside. Sul trono romano sedeva dal 945 (anche se teoricamente dal 913) Costantino VII Flavio, detto il Porfirogenito. Di lui si è detto e stradetto, ma a noi della sua biografia oggi non interessa nulla. Ciò che invece deve premerci riguarda una presunta battaglia combattuta in Cappadocia contro i musulmani, che premevano sulla frontiera ormai da secoli.
Le cronache sostengono che, dopo combattimenti incessanti e sanguinosi, a spuntarla furono proprio i romei. Erano riusciti ad avere la meglio in giornata, infliggendo agli arabi una sonora batosta. Per questo di notte si accamparono non lontano dal campo di battaglia, in attesa di muoversi all’indomani. Comandanti e soldati non sapevano che il mix fra l’oscurità della notte, la stanchezza accumulata dopo ore, anzi, giorni di combattimenti, e paura, sarebbe risultato letale. L’aggettivo è da intendere nel suo senso lato.
Nelle ore più buie, infatti, i soldati notarono delle fiammelle che guizzavano tra la nebbia, strane luci tremolanti che sembravano muoversi tra i cadaveri lasciati sul campo. Oggi sappiamo che si trattava di fuochi fatui, prodotti naturali della decomposizione organica. Ma per uomini del Medioevo, cresciuti nella superstizione, quelle erano “luci dei morti”, spiriti erranti o presagi funesti. Il timore si diffuse rapidamente tra i ranghi, e la tensione accumulata durante il giorno rese tutti più inclini al panico.

La prospettiva dei soldati avrebbe comportato solo un incremento della paura, una sana dose di terrore da contrastare standosene nel giaciglio, attendendo l’alba. I comandanti invece interpretarono quelle strane luci nel peggiore dei modi. Sì, non potevano che essere gli arabi, che in piena notte avevano raggirato la retroguardia romana e stavano per sferrare un attacco a sorpresa decisivo. Tanto bastò per far diramare l’ordine: ritirata!
Nel buio più pesto, l’esercito si trasformò in una massa disordinata e terrorizzata. I soldati fuggivano alla cieca, cavalli imbizzarriti travolgevano tende e compagni, mentre altri, convinti di essere circondati, finirono per attaccarsi l’un l’altro. Ci furono persino uomini che, pur di non cadere prigionieri, si gettarono giù dai dirupi.

Quando si fece giorno, lo spettacolo appariva tetro e surreale. Il nemico era stato effettivamente respinto – questo il giorno prima – ma l’esercito bizantino aveva distrutto se stesso. Gran parte della fanteria e della cavalleria leggera era perduta, e con loro anche numerosi ufficiali di rango. La vittoria si era tramutata in disfatta.
Gli storici moderni guardano con sospetto a questo episodio. È curioso che la cronaca non riporti né il luogo né la battaglia con precisione. Forse omissioni volontarie; forse la voce di un autore che scriveva a posteriori basandosi su racconti raccolti qua e là. Non è neppure escluso che si tratti di una leggenda nata a scopo morale, per ammonire contro i pericoli della superstizione e del panico, che possono rivelarsi distruttivi quanto un’armata avversaria.