Il Nazionalsocialismo ha una data di nascita e una di morte. Bene o male coincidono con l’ingresso nella scena politica tedesca dell’uomo che che diventerà Führer e con la sua inevitabile dipartita, nel 1945. Se questo è vero, è altrettanto esatto sostenere come i nazionalsocialisti, volontari (o meno) seguaci del Terzo Reich, siano sopravvissuti alla morte del loro leader e del sogno totalitario che egli portava in grembo. Molti di loro riuscirono a fuggire, tra le macerie di una Germania in balia degli Alleati, verso una nuova vita. C’è chi scelse l’America Latina e chi trovò rifugio in Medio Oriente, sottraendosi ai processi di Norimberga e alla vendetta del Mossad. Alcuni, di fronte a quella seconda occasione, scelsero l’ombra; altri, invece, la sfruttarono per reinventarsi. Fra tutti, il caso più singolare fu quello di Reinhard Gehlen. Il Generalmajor della Wehrmacht che divenne strumento della CIA nell’Europa del dopoguerra.

Reinhard Gehlen nacque il 3 marzo 1902 a Erfurt, in Turingia, in una famiglia cattolica e borghese che immaginava per lui un futuro da accademico. Ma il giovane Reinhard, insofferente alle aspettative dei genitori e disilluso dai valori religiosi, scelse un’altra strada, quella delle armi. Entrò nella Reichswehr, la forza armata della fragile Repubblica di Weimar, erede mutilata dell’esercito imperiale guglielmino.
Gehlen fece subito carriera, grazie ad una notevole disciplina e un’altrettanto sconfinata determinazione. Nel 1935 completò la formazione presso la prestigiosa Führungsakademie di Berlino e fu promosso capitano nello Stato maggiore generale. Chiariamo subito un aspetto. In quella Germania, fomentata dalla retorica infuocata del Führer, egli non spiccava come un fanatico. Sì, era nazionalista, ma non propriamente nazionalsocialista,. Gli storici sostengono come Gehlen osservasse la macchina hitleriana con rispetto professionale, ma senza entusiasmo ideologico. La sua mente razionale e analitica trovò terreno fertile nel lavoro di raccolta e interpretazione delle informazioni militari.
Durante la Seconda guerra mondiale servì prevalentemente sul fronte orientale, in Polonia e in Unione Sovietica. Nel 1942 ottenne il comando del Fremde Heere Ost (FHO). Era il dipartimento dell’intelligence militare tedesca incaricato di studiare e analizzare l’apparato sovietico. Fu lì che Gehlen trovò la sua vera vocazione. Quella di spia, analista e costruttore di reti sensibili oltre che strategiche.

Riorganizzò il FHO con metodi innovativi, chiamando linguisti, geografi, antropologi e studiosi della Russia per comprendere il nemico nella sua complessità. Fu anche tra i primi a intuire la capacità di recupero sovietica dopo Stalingrado, preannunciando la disfatta tedesca quando ancora il fronte sembrava stabile.
Nel 1944 Gehlen venne sfiorato dagli eventi che avrebbero cambiato la storia. Contattato da Henning von Tresckow, Claus von Stauffenberg e Adolf Heusinger, accettò di dare copertura logistica al complotto dell’Operazione Valchiria, la congiura militare che mirava ad assassinare il vertice dello Stato nazionalsocialista e porre fine alla guerra. Il suo ruolo fu marginale, ma bastò a farlo finire sotto sospetto dopo il fallimento del 20 luglio.

Si eclissò per mesi, finché il Terzo Reich non collassò. Alla resa di Berlino, Gehlen non si arrese ai sovietici, ma cercò contatto con gli americani. Aveva un piano preciso: consegnare ai vincitori le proprie conoscenze (validissime) sull’Unione Sovietica in cambio della libertà. Portava con sé l’intero archivio del FHO, accuratamente nascosto in Baviera. Un’occasione più che ghiotta per la Casa Bianca.
Nel maggio 1945, in una Germania ridotta in rovine, Gehlen incontrò gli uomini dell’Office of Strategic Services (OSS), il precursore della CIA. Offrì i suoi archivi, la sua esperienza e la sua rete di contatti in cambio di protezione. Gli americani, già proiettati verso la sfida del dopoguerra, accettarono. Il nemico di ieri divenne, d’un tratto, un prezioso alleato.
Sotto la supervisione americana, Gehlen creò una struttura di intelligence autonoma e segreta, nota come “Organizzazione Gehlen“. Ufficialmente si presentava come “Ufficio per lo sviluppo industriale della Germania meridionale”. Rileggete attentamente il nome e date un voto da 1 a 10 sul senso di innocuità che trasmette. Ecco, dietro quel mansueto magistero in realtà si celava una rete di spionaggio al servizio degli Stati Uniti d’America. Quindi al servizio del Blocco Occidentale.

Entro la fine del 1946 l’Organizzazione (nome con cui si indicava la struttura di Gehlen) contava oltre 350 dipendenti stabili e più di 4.000 agenti attivi in Europa. Molti di essi erano ex ufficiali tedeschi, persino ex membri della Wehrmacht o delle SS, riabilitati per le loro competenze contro il nuovo nemico comune: il comunismo, in ogni sua forma e sostanza.
Gli agenti di Gehlen operavano lungo la Cortina di Ferro, raccogliendo informazioni sui movimenti sovietici, interrogando prigionieri di guerra di ritorno dai gulag e infiltrando reti clandestine nei Baltici e in Ucraina. L’Organizzazione divenne, di fatto, gli occhi della CIA in Europa durante la prima fase della Guerra Fredda. Ma l’efficienza iniziale lasciò presto spazio a ombre e sospetti. Negli anni ’50, le fughe di informazioni si moltiplicarono. Nel 1961, la scoperta di tre agenti doppiogiochisti – Johannes Clemens, Erwin Tiebel e Heinz Felfe – rivelò che parte dell’Organizzazione Gehlen era infiltrata dal KGB.

Nel 1956, la Germania Ovest decise di riappropriarsi del proprio apparato d’intelligence, fondando il Bundesnachrichtendienst (BND). La direzione fu affidata proprio a Reinhard Gehlen, che divenne così il primo capo dei servizi segreti federali. Per dodici anni guidò il BND con rigore e autorità (record di longevità tutt’ora imbattuto). Sotto la sua direzione, l’agenzia tedesca collaborò strettamente con la CIA e con i MI6, i servizi segreti britannici per capirci, ma fu anche teatro di intrighi, rivalità e scandali.
L’arresto dei tre agenti al soldo del Cremlino fu il colpo più duro. Per completezza d’informazione, i doppiogiochisti agivano tanto per conto della CIA, quanto per quello della BND. La reputazione di quest’ultima, come è ovvio che sia, crollò. Gehlen divenne il capro espiatorio perfetto. Il governo di Bonn, spinto dal resto dell’Occidente, avviò un processo di “denazificazione” delle istituzioni, sostituendo i vecchi ufficiali con una nuova generazione di funzionari democratici.
Gehlen rientrava abbondantemente nel target e nel 1968 fu costretto a dimettersi. Si ritirò a vita privata, scrisse le sue memorie, Der Dienst (letteralmente “Il Servizio”), e morì nel 1979, dimenticato, isolato e disprezzato da coloro che un tempo lo avevano protetto.