Sì, ovviamente sì. Ma questo lo sapevate anche voi. Ciò che forse non potete immaginare riguarda il quantitativo di mine inesplose ancora in circolazione, nascoste chissà dove e in chissà quali condizioni. Similmente può sfuggire la portata della questione, un problema che in alcuni paesi è quantomai attuale… Tristemente attuale.

Nel corso della Seconda guerra mondiale le potenze coinvolte, tanto fra gli Alleati quanto nell’Asse, si sono avvalse di decine di milioni di mine in ogni teatro bellico. Dal 1945, con la cessazione delle ostilità, sono iniziate le operazioni per localizzare, segnalare e disinnescare queste armi così atrocemente efficienti. Se in alcune aree del mondo il processo di bonifica ha avuto un grande ed immediato successo, in altre zone non si è riscontrato un esito altrettanto positivo. Tre sono i casi emblematici sui quali ci soffermeremo nei prossimi paragrafi: Egitto, Giappone e Russia.
Come anticipato in apertura, ambo gli schieramenti durante il secondo conflitto mondiale utilizzarono diversi tipi di mine a seconda del contesto. Dal mare all’entroterra, lo scopo fu sempre lo stesso: scoraggiare, rallentare e, se possibile, danneggiare gravemente il nemico. Attraversare un campo minato senza le dovute precauzioni era un suicidio; farlo con le accortezze del caso comportava una perdita di risorse e tempo difficilmente sostenibili sul medio-lungo periodo. Discorso altresì valido per le profondità marine, dove le mine navali servivano principalmente a bloccare passaggi cruciali o porti strategicamente vitali.
Se non ci si pose limiti sul quantitativo utilizzato, non lo si fece neppure sul piano delle aree ricoperte. Vedasi la battaglia di El Alamein (ottobre-novembre 1942). I campi minati andavano dalle spiagge affacciate sul Mediterraneo orientale fino alla depressione di Qattara. Per capirci, si trattò di una fascia di territorio lunga circa 50 km. Con lo scivolamento dei combattimenti in direzione ovest, le cinture di mine inesplose rimasero indietro, venendo progressivamente dimenticate. L’Egitto paga ancora lo scotto della guerra sotto questo punto di vista; tra poco ci torniamo.

Così come per El Alamein, molti teatri bellici hanno conservato il loto potenziale mortale. Certo, sono passati 80 anni dalla fine della guerra, il tempo e gli agenti atmosferici hanno corroso e reso invalidi molti ordigni esplosivi. Tuttavia esiste una percentuale (piccola o grande che sia, non è dato saperlo) di mine inesplose altamente instabili.
Gli odierni stati europei sono a conoscenza di questi pericoli vaganti. Nel Mar Baltico lo sforzo congiunto di Estonia, Lituania, Russia e NATO (chiaramente prima degli eventi a noi ben noti, che hanno interrotto la collaborazione) ha portato alla bonifica di ampie sezioni marine. L’Alleanza Atlantica sfrutta la questione per addestrare i propri artificieri. L’operazione NATO Open Spirit è in svolgimento nel Baltico dal 1995 per la rimozione di circa 80.000 mine navali di prossimità ancora integre. L’ultimo dato disponibile è del 2021 (sempre per le ovvie contingenze geopolitiche) e la voce “ordigni disarmati” recita: 130.
Pensate che sono un problema anche se non detonano. Infatti le mine prodotte durante il periodo 1939-45 dovevano essere necessariamente economiche e pronte all’uso. Quando due fattori del genere impattano sulla logica produttiva, si sacrifica tutto il resto (affidabilità, efficacia, potenziale esplosivo, qualità dei materiali, ecc.). Ed ecco che gran parte delle mine sotto la superficie marina sono talmente di bassa qualità da degradarsi nel tempo e rilasciare nell’acqua sostanze nocive per l’ecosistema.

Come promesso torniamo adesso in Egitto. Tra il settembre del 1940 e il novembre del 1942 nell’area desertica occidentale del Paese si sono verificati scontri altalenanti tra l’Asse e gli inglesi. Si stima che la somma delle mine usate per l’occasione raggiunga i 23 milioni. A rendere il boccone più amaro possiamo metterla in termini percentuali: il 22% dell’Egitto è attualmente un campo minato. È anche vero che la percentuale si riferisce quasi esclusivamente alla parte occidentale della nazione, desertica e scarsamente popolata. Nonostante ciò, i dati ministeriali ci dicono che dal termine della Seconda guerra mondiale più di 8.000 morti sono state causate da mine sotterrate nella sabbia. ONU ed Egitto lavorano assieme dal ’48 per sminare la zona interessata. Non è affatto semplice, infatti su un’estensione di 286 km², le autorità hanno bonificato 38 km².

Il filo conduttore delle mine inesplose ci costringe a volgere lo sguardo al Giappone. I bombardamenti americani non prevedevano solamente la distruzione di intere città e la morte – ingiustificata e ingiustificabile – di centinaia di migliaia di civili inermi, ma anche il rilascio di mine navali, le quali piovevano dal cielo dotate di paracadute. I sottomarini fecero il resto. All’epoca si stimarono 25.000 unità disseminate attorno l’arcipelago nipponico. Nel secondo dopoguerra, successivamente alla capitolazione giapponese e all’assoggettamento di Tokyo a Washington, ebbero inizio le operazioni per il disarmo delle mine inesplose.
Soprattutto grazie alla determinazione delle Jieitai (Forze di autodifesa del Giappone, l’esercito in parole spicciole), il paese del Sol Levante ha eradicato il problema quasi del tutto. Restano all’incirca 2.000 ordigni marini ancora da scovare. L’ultima notizia degna di nota è recentissima. Nel 2023 la marina nipponica ha fatto saltare una mina navale nello stretto di Shimonoseki tra le isole principali di Kyushu e Honshu. Si è evitata così la ripetizione di quanto accaduto nel 1965, quando una mina navale fino ad allora anonima esplose a contatto con un’imbarcazione, causando morti e feriti.

La Russia non è affatto estranea a questa scomodissima eredità. Il sud-ovest, luogo in cui spiccano la città di Volgograd (l’ex Stalingrado) o i passi montani caucasici, fu uno scenario particolarmente vivace del conflitto. Brutali combattimenti comportarono un massiccio utilizzo di armi poi giudicate anticonvenzionali. L’Unione Sovietica sotto Stalin, Chruščëv e Brežnev effettuò entro la metà degli anni ’70 tre grandi operazioni di bonifica. Queste condussero ad eccellenti risultati (sebbene qualcuno tra gli artificieri ci abbia rimesso la vita), con un buon 95% del complessivo disarmato. Eppure quel misero 5% che tanto misero non è ancora oggi comporta un pericolo giudicato inammissibile dagli apparati moscoviti.
Un caso su tutti: nel 1999 una mina antiuomo esplose in una cittadina russa al confine con la Cecenia. Fece tredici morti, fra cui una bambina. Quindi sì, ripetiamolo assieme, le mine inesplose della Seconda guerra mondiale sono un enorme – e troppo spesso sottostimato – problema per il mondo contemporaneo.