Ripercorrendo la parabola di Nestor Ivanovič Machno e della repubblica anarchica sorta in Ucraina nel 1917, si ha come l’impressione di osservare una delle vicende più singolari emerse dal caos della Rivoluzione russa. La sua storia, radicata nelle campagne ucraine e al tempo stesso inserita nei vortici geopolitici scatenati dal crollo dell’autocrazia zarista, è quella di un uomo che tentò di trasformare un’utopia libertaria in un progetto politico concreto, ritagliandosi per alcuni anni un dominio autonomo che sembrò incarnare, più di qualsiasi altro, la possibilità di un’alternativa anarchica al bolscevismo.

Nato nel 1889 e cresciuto a Huljajpole, sud-est ucraino, in una famiglia contadina poverissima, orfano di padre e costretto fin dall’infanzia a lavori estenuanti, Machno sviluppò abbastanza presto un profondo risentimento verso il sistema agrario russo, dominato da grandi proprietari terrieri (i cari buon vecchi kulaki) e aggravato dall’immobilismo burocratico imperiale. Il precoce contatto con la piccola cellula anarchica locale lo portò a partecipare ad azioni violente contro rappresentanti della macchina statale dei Romanov. Finì nel carcere moscovita di Butyrka, nel 1908. In teoria condannato a morte, nella pratica commutarono la sentenza in ergastolo, vista la giovane età. Qui incontrò l’intellettuale anarchico Pëtr Aršinov. Persona che contribuì allo sviluppo delle sue idee politiche e che gli offrì una cornice teorica all’istinto ribelle maturato nella miseria contadina.
Scarcerato nel 1917, dopo la caduta dello zar, tornò immediatamente a Huljajpole, trovandovi un terreno fertile per i suoi progetti. Il dilagante movimento dei soviet offriva la possibilità di organizzare i lavoratori in strutture autonome e di promuovere un’idea di autogoverno compatibile con il suo anarchismo contadino. Machno divenne rapidamente il leader del soviet locale e si fece interprete delle richieste della popolazione rurale. Quali richieste? Ridistribuzione delle terre in primis. Poi la fine dei privilegi dei latifondisti, tra cui molti mennoniti tedeschi e olandesi insediati in epoca zarista.

Al tempo stesso, la situazione politica ucraina stava assumendo una complessità senza precedenti. E quando parlo di complessità, non lo faccio per dare un certo tono alla narrazione. Fu davvero uno scompiglio da quelle parti. Cercando di semplificare: alla formazione della Rada Centrale nel 1917, che rivendicava l’autonomia e poi l’indipendenza dell’Ucraina, si contrapposero i bolscevichi, determinati a mantenere il controllo del territorio. Peccato che buona parte del territorio ucraino fosse sotto occupazione delle potenze centrali. Impero tedesco e Austria-Ungheria intervennero militarmente nell’area nel 1918, instaurando un regime fantoccio: l’etmanato di Skoropads’kyj. Per chi non mastica il periodo preso in esame, proverà un frustrante senso di smarrimento. Vi comprendo e vi sono vicino.
Insomma, in questa giostra di regimi effimeri, Nestor Ivanovič Machno forgiò la sua prima esperienza militare organizzando la resistenza contadina contro gli occupanti austro-tedeschi e trasformando il soviet in una vera infrastruttura di potere locale.
Fu tra il 1918 e il 1919 che la Machnovščyna prese forma come entità politica distinta. Sia chiaro: non fu un semplice movimento insurrezionale! Parliamo invece di un’ampia zona autonoma nella regione del Dnipro orientale, organizzata secondo principi anarchici e difesa dall’Esercito Rivoluzionario. Si procedette secondo uno schema preciso. Prima la collettivizzazione delle terre, poi si concesse ampia autonomia ai soviet locali. La leadership machnovista (cito i vari Volin, Fedir Shchus, Kurilenko e il già incontrato Aršinov) elaborò un modello di autogoverno fondato sulla democrazia diretta, sul controllo operaio delle industrie e sul rifiuto di qualsiasi forma di potere centralizzato.

La composizione multietnica e multireligiosa della regione favorì un clima relativamente inclusivo, almeno rispetto agli standard dell’epoca: gli ebrei erano presenti tanto nell’amministrazione quanto nell’esercito machnovista, e l’antisemitismo, pur diffusissimo altrove nelle campagne rutene durante la guerra civile, fu attivamente contrastato. Gli unici contro i quali si rivolsero dei “brutti” avvertimenti furono i mennoniti. Questo perché erano i soli a rappresentare il vecchio ordine agrario. Per “brutti avvertimenti” intendo aggressioni sanguinarie. Ciò rivelò una contraddizione evidente tra l’ideologia egualitaria proclamata da Machno e le dinamiche di vendetta sociale radicate nelle campagne.
Il destino della Machnovščyna fu segnato dalle mutevoli alleanze della guerra civile russa. Machno combatté a fasi alterne contro i petljuristi della Repubblica Popolare Ucraina, contro l’Armata Bianca che mirava a restaurare l’autocrazia e contro i bolscevichi. Quest’ultimi (anche se non tutti allo stesso modo) vedevano nell’autonomia anarchica una minaccia per il loro progetto di Stato centralizzato. L’abilità militare del suo esercito, famoso per l’uso di tattiche dinamiche e per gli attacchi fulminei condotti con le tačanki (essenzialmente dei carri trainati da cavalli con mitragliatrici montate), gli permise di infliggere dure sconfitte a forze molto più numerose e meglio equipaggiate.

Ma ogni successo militare era destinato a essere neutralizzato dalla pressione convergente dei vari contendenti. I Bianchi lo costrinsero più volte alla ritirata, i Rossi trattarono con lui quando l’opportunità faceva gola e lo tradirono non appena la situazione cambiava, Mentre il continuo logoramento delle campagne, aggravato dal Terrore Rosso, dissanguava la base sociale del movimento. L’apice del potere machnovista tra il 1919 e il 1920 – quando Huljajpole fu riconquistata, i soviet ripristinati e le riforme agrarie estese – coincise anche con la tragica epidemia di tifo che decimò la popolazione e con l’arrivo di nuovi offensive sia da parte dei Bianchi sia dei bolscevichi.
A contrassegnare l’ultima fase della Machnovščyna fu l’ennesima alleanza temporanea con i bolscevichi per sconfiggere Pëtr Vrangel’ (o Peter von Wrangel, che dir si voglia). Si trattava dell’ultimo grande comandante bianco nel meridione della Russia. Una volta eliminato il nemico comune, Mosca non ebbe più motivo di tollerare l’esistenza di una regione anarchica armata nel cuore dell’Ucraina. La Čeka avviò la repressione sistematica dei soviet locali. Lenin pretese che Machno si unisse all’offensiva contro la Polonia, richiesta che gli anarchici rifiutarono in nome dei loro principi.
L’Esercito Rivoluzionario si ritrovò isolato e pressato. In estrema difficoltà, nonché privo di rifornimenti, si disperse rapidamente. Lo stesso Machno fuggì attraverso l’Ucraina occidentale, trovando riparo temporaneo in Romania e poi in Polonia. Qui lo imprigionarono per qualche anno. Poi fu la volta dell’esilio in Francia, dove visse gli ultimi anni in povertà. Nestor Ivanovič Machno Morì a Parigi nel 1934, a causa della tubercolosi.

Nonostante la sua fine rapida e violenta, la Machnovščyna rappresentò il più grande esperimento anarchico del Novecento. Un laboratorio politico in cui si cercò di coniugare autogestione contadina, democrazia diretta e difesa militare dal basso in un contesto di guerra totale. La sua popolarità tra i contadini ucraini, che vedevano nella redistribuzione delle terre e nelle libertà garantite dai soviet locali una concreata emancipazione dall’oppressione zarista e poi bolscevica, dimostra quanto l’anarchismo di Machno fosse radicato nella realtà sociale del suo tempo.
Lungi dal sottoscritto mostrare simpatia per l’esperimento machnovista, resta tuttavia l’imparzialità che un approccio storico degno di nome deve preservare nel descrivere un fenomeno così peculiare. In definitiva, se la repubblica anarchica ucraina di Nestor Ivanovič Machno venne meno, fu essenzialmente per via di tre fattori. Dicasi la mancanza di riconoscimento internazionale, l’assenza di un apparato amministrativo stabile e l’impossibilità di sopravvivere in una guerra civile dominata da eserciti centralizzati e ideologie totalizzanti.




