Con la globalizzazione e l’interconnessione mondiale galoppanti, conoscere usanze, tradizioni e prodotti di culture geograficamente lontane non è più un miraggio. Quello di cui vi parleremo oggi è un alcolico tradizionale giapponese con una corroborata e lunga storia alle spalle: il Sakè. Molti di voi lo avranno già sentito nominare, altri ne avranno già gustato il peculiare sapore.

In primis spieghiamo meglio di cosa stiamo parlando. Quando nominiamo il Sakè, intendiamo una bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione di riso e acqua, con l’aggiunta di spore di koji (un fungo filamentoso nipponico). Grossolanamente definito “vino di riso“, ci troviamo di fronte ad una bevanda molto più vicina, per metodi di produzione, alla nostra birra. La gradazione alcolica però si avvicina più a quella del vino – e lo supera anche n.d.r. – arrivando a ben 15°.
Ora concentriamoci però sulla nostra parte preferita, quella storica. Quando e come nasce il Sakè? Come in molti casi di storia lontana cronologicamente da noi, non abbiamo fonti certe che attestano una nascita, e nessun certificato cartaceo. Rifacciamoci allora alle tradizioni più stratificate, strada migliore in questi casi. La prima ipotesi collega la nascita della bevanda fermentata al Chang Jiang, ovvero il Fiume Azzurro, corso d’acqua più lungo dell’Eurasia. Quindi parliamo di Cina? Praticamente sì, ma subito dopo divenne diffuso anche in Giappone.

Se si accetta tale versione il Sakè risalirebbe circa al V millennio a.C. Sì, tantissimo tempo fa. Un’altra versione, e questa ci riporta pienamente nel Paese del Sol Levante, è molto più recente e parla del periodo di tempo vicino al III secolo d.C. In questo frangente storico, in Giappone si avviò la coltivazione del riso in umido, ingrediente principale del Sakè. Ma la preparazione di questa bevanda era a dir poco particolare, pensate che si parlava di “kuchikami no sake“, ovvero “sakè masticato in bocca”.
Perché questo nome? Se siete abbastanza forti di stomaco ve lo raccontiamo subito. La nostra saliva contiene degli enzimi in grado di trasformare gli amidi in zucchero grazie ai processi di saccarificazione che innescano. Mescolando il riso raccolto con castagne, miglio e ghiande, masticandolo e sputandolo in apposite tinozze, si otteneva, dopo la fermentazione, una buonissima bevanda. Non tutti forse la pensano allo stesso modo e capiamo anche che potrebbe sembrare poco invitante.

La chiave di volta della nostra storia, già menzionata in apertura, furono i funghi koji e le loro spore. Nella preparazione del Sakè essi sostituirono il processo di masticazione e di sputo del composto, facendo fermentare naturalmente la bevanda, senza più bisogno della saliva umana.
Da allora la produzione proseguì spedita e, negli ultimi tempi, si è diffusa anche in zone del mondo molto lontane dall’estremo oriente. Possiamo dire che la globalizzazione ci permette di raggiungere posti lontani in uno sputo, ma in questo caso forse è meglio non dirlo.