Fotografia di anonimo, Sud Italia, 1945 circa. Un soldato, probabilmente statunitense, disinfetta una modesta abitazione del Mezzogiorno nel rispetto delle direttive antimalariche. Due sono gli elementi che maggiormente risaltano nell’immagine: a sinistra, la pompa per la disinfestazione, che si avvale di una miscela composta da DDT – un’insetticida clorurato utilizzatissimo dagli Alleati durante la Campagna d’Italia – e cherosene. Il secondo elemento di spicco è forse quello più impattante: la bambina sulla destra, ovviamente spaventata dall’omone in uniforme. La fotografia ci dice tanto di quell’Italia, devastata tanto dalla guerra quanto dalla malaria, pestiferi presagi di morte.

L’Italia aveva un conto in sospeso con la malaria sin dal periodo unitario. All’inizio del XX secolo, le aree malariche si estendevano per quasi 7 milioni di ettari. La patologia interessava ben 2.635 comuni, dunque una percentuale pari al 3,7% dell’intero Paese. I vettori predominanti erano le zanzare, le quali punture risultavano micidiali nelle isole, nel sud della penisola e nel suo cuore geografico. Dati del primo Novecento indicano Sicilia e Sardegna come le aree più attanagliate dalla malaria: insieme rappresentavano il 70% di tutti i casi nazionali. Seguivano Puglia, Basilicata, Calabria, Campania e Lazio, con il 20% delle denunce.
Le percentuali, tranne qualche leggera flessione per le zone centrali dello stivale, rimasero invariate fino alla Seconda guerra mondiale. La progressiva avanzata alleata che dal 1943 liberò il Paese dal giogo totalitario lasciò dietro di sé zone purtroppo devastate dalle terribili logiche belliche, ma anche colpite colpite da povertà, fame ed epidemie. Le condizioni igienico-sanitarie erano drammatiche. I problemi all’ordine del giorno erano svariati e andavano dalle pulci ai ben più delicati casi di tifo, scabbia e malaria.

Di quest’ultima si hanno dati certosini raccolti dalle autorità alleate, interessate a contrastare il morbo anche per un mero calcolo strategico. D’altronde erano molte le unità anglo-americane a non poter partecipare alla campagna militare perché messe fuori gioco dalla malaria. In Italia nel 1945 si registrarono 411.602 casi. Non proprio briciole. Gli Alleati (soprattutto americani) avviarono programmi di disinfestazione su vasta scala.
Come contrastare la malattia? Si pensò ad un particolare composto, contraddistinto da ampie dosi di DDT (Diclorodifeniltricloroetano – insetticida sintetico scoperto nel 1939 da Paul Hermann Müller, premio Nobel nel 1948) e cherosene, liquido per facilitare la penetrazione nei tessuti, nei letti, nelle pareti.

Intere regioni furono irrorate di DDT, sia in polvere che nella sua forma liquida, per controllare il tifo trasmesso dalle pulci. Esso permise anche di debellare completamente la malaria, trasmessa dalla zanzara anofele allora presente in alcune zone, come ad esempio in Maremma e Sardegna.

Le operazioni di bonifica e disinfestazione seguivano dei protocolli non proprio limpidissimi. La fotografia con cui abbiamo introdotto la tematica ce lo ricorda. Spesso mancavano precauzioni di vario tipo: alimenti, oggetti d’uso quotidiano, bambini e donne incinte subivano l’esposizione diretta al DDT. Popolazione civile che il più delle volte non comprendeva l’entità del provvedimento igienico-sanitario. Si finiva perciò per imporre le procedure di disinfestazione, senza spiegare gli effetti dell’azione o le motivazioni intrinseche.