Nel mondo romano, l’idea stessa di natalis, ossia il giorno della nascita, rappresentava una sorta di punto d’incontro fra alcune delle sfere più importanti della vita: quella privata, religiosa e pubblica. Per i Romani, nascere significava entrare sotto la protezione di una divinità personale, Genio per gli uomini e Giunone per le donne. Delle vere e proprie divinità tutelari che accompagnavano l’individuo per tutta la vita. Celebrare il compleanno, dunque, non era soltanto un’occasione sociale, ma un rito sacro che rinnovava il legame con questa presenza divina. Chiaramente oltre all’aspetto interiore e votivo, c’era molto di più. Vediamo cosa.

Nelle case romane, il giorno del proprio natalis veniva segnato da piccoli rituali. Pensiamo alla veste candida, alle ghirlande poste sull’altare domestico, o alle immancabili libagioni di vino. Poi l’incenso bruciato (tradizione sopravvissuta all’avvento del Cristianesimo) e le focacce sacrificali. Uomini e donne onoravano la propria divinità personale come un interlocutore intimo, invocandone protezione e favore. La descrizione più chiara di questo rapporto si trova nell’autore Censorino (III secolo d.C.). Egli nel De Die Natali spiega come il Genio fosse considerato una sorta di doppio spirituale che non abbandonava mai l’individuo, neppure per un istante.
Le fonti poetiche concordano con questa descrizione. Prendiamo ad esempio Orazio; il poeta di Venosa parla del compleanno di Gaio Cilnio Mecenate – da cui scaturì l’eponimia – come di un evento sacro, nel quale l’altare domestico “attende di macchiarsi di sangue”, alludendo al sacrificio di un agnello. Ovidio, persino nell’esilio di Tomi, immagina il suo Genio seguirlo e attendere gli stessi riti, pur in condizioni di abbandono e malinconia. Questo elemento religioso ci ricorda che per i Romani il compleanno era una ricorrenza di profonda relazione con il soprannaturale.

Però ehi, i Romani erano esseri umani, proprio come noi. Parole spicciole per dire che anche nell’antica Roma sapevano come divertirsi in un’occasione degna di celebrazione. Sappiamo come i compleanni venissero considerati alla stregua di eventi mondani. L’invito di Claudia Severa (una letterata del I-II secolo d.C., moglie di un militare di carriera) rivolto all’amica Sulpicia Lepidina è straordinario in tal senso. Conservato fra le Tavolette di Vindolanda, è uno dei documenti più antichi provenienti dalla Britannia romana e testimonia come suddette feste coinvolgessero amici e conoscenti. Quindi giù di pranzi, ricevimenti, scambi di doni. Tutto all’insegna della convivialità.
Ovviamente anche la poesia latina offre numerosi esempi. Tibullo e il già citato Orazio dedicano epigrammi ai compleanni dei loro patroni. Marziale dona versi come fossero regali. Plinio il Giovane scrive lettere affettuose nella ricorrenza del compleanno dei parenti. Il gesto di offrire un componimento poetico come dono aveva un valore altissimo. Mi azzardo a dire che farlo, equivaleva a consolidare un contratto di amicizia, di stima e riconoscenza. Cosa che vale anche per noi, gente del XXI secolo, anche se i mezzi per veicolare tale messaggio sono leggermente variati.

Nella società romana, tuttavia, il compleanno non coinvolgeva solo amici e familiari. Schiavi, liberti e clienti erano tenuti a festeggiare il natalis del pater familias come segno di gratitudine e fedeltà. Sono tante testimonianze epigrafiche a comprovare questo dato di fatto. Queste ci parlano dell’esistenza di benefattori economicamente in grado di lasciare fondi destinati a finanziare queste celebrazioni. Era un modo per perpetuare la propria memoria, ma anche per rafforzare i legami di dipendenza che regolavano la vita sociale.
Il macroargomento sul quale sto cercando di battere è che ogni natalis aveva una dimensione più ampia di quella che ci si potrebbe aspettare. Addirittura luoghi, enti e istituzioni avevano un compleanno. I templi celebravano il proprio natalis templorum, ovvero l’anniversario della loro fondazione (ritenuto simbolicamente il compleanno della divinità ivi venerata). Sappiamo fin troppo bene come anche l’Urbe stessa avesse (ed ha) il suo dies natalis: il 21 aprile, data fissata da Claudio nel 47 d.C. Un giorno in cui si commemorava la fondazione di Roma da parte di Romolo. Il 21 aprile di ogni anno fu uno dei fulcri dell’identità romana imperiale.

E poi c’erano le celebrazioni strutturate su cicli più vasti, come i Ludi Saeculares, svolti irregolarmente ogni cento anni per segnare il passaggio da un secolo all’altro. Augusto li celebrò nel 17 a.C., Claudio nel 47 d.C., Domiziano nell’88 d.C., e nel 248 d.C. Filippo l’Arabo sfruttò il millenario della città per mettere in scena giochi di uno sfarzo straordinario.
Se però vogliamo individuare un cambio di paradigma nel festeggiare un evento come il compleanno, allora lo troviamo al passaggio storico fra la Repubblica e il Principato. Tradotto: siamo in piena età augustea. Il compleanno dell’imperatore, pur non considerato un dio in carne ed ossa, divenne un momento centrale del nuovo culto pubblico. Come il pater familias proteggeva la propria domus, così l’imperatore era definito pater patriae, garante della prosperità dell’intero popolo romano; è il caso emblematico di Ottaviano Augusto. Festeggiare il suo compleanno con sacrifici e cerimonie significava chiedere agli dei la sua salute e, per estensione, quella dello Stato.

I registri degli Arvali, uno dei collegi sacerdotali più importanti dell’età imperiale, mostrano quanto questi rituali fossero articolati. In occasione del natalis dell’imperatore, essi offrivano sacrifici al suo Genio, alla Triade Capitolina, alla Salus e (più in là nei secoli) agli imperatori divinizzati. Le feste si estendevano anche ai membri della famiglia imperiale: mogli, figli, nipoti, persino parenti defunti. Questa trama di rituali contribuiva a trasformare la casa imperiale in un punto di riferimento religioso per i sudditi.




