Almanacco del 3 settembre, anno 2004: si consuma la funesta strage di Breslan, un massacro avvenuto fra il 1º e il 3 settembre 2004 nella scuola Numero 1 di Beslan, nell’Ossezia del Nord. Un commando di 32 terroristi – fondamentalisti islamici e separatisti ceceni – occupò l’edificio scolastico e arrivò a sequestrare circa 1.200 persone fra adulti e bambini. Il terzo giorno tuttavia si verificò uno scempio umano senza precedenti, un raccapricciante atto di violenza che nessuna società umana dovrebbe mai sperimentare. Eppure è successo. Quella che segue è una cronaca quanto più esaustiva dei fatti, pur tenendo conto delle difficoltà che una tale ricostruzione, con tutte le devianze narrative del caso, comporta.

Parto col dire che l’assalto terroristico a Beslan non fu un episodio isolato. Fece parte della lunga e tormentata vicenda delle guerre cecene. Senza entrare troppo nello specifico, ci basti sapere che dopo il crollo dell’URSS, nel 1991, la Cecenia aveva proclamato unilateralmente l’indipendenza. Mosca rifiutò di riconoscerla. Da lì ebbero origine due conflitti sanguinosi (il primo del 1994-1996 e il secondo, ben più lungo, del 1999-2009), caratterizzati da devastazioni, massacri di civili e una radicalizzazione crescente di parte del movimento separatista, che nel tempo assunse connotati islamisti oltre che nazionalisti.
Nel 2002, due anni prima di Beslan, un altro attentato aveva già mostrato la pericolosità della minaccia. Parlo della crisi del teatro Dubrovka a Mosca, quando un commando prese in ostaggio centinaia di spettatori. L’assalto delle forze speciali, con gas tossici, provocò la morte di circa 130 ostaggi. Beslan si colloca dunque in una sequenza di atti terroristici che colpivano luoghi simbolici e civili, mirando ad accrescere la pressione sul governo di Putin.

Allora capiamo perché i separatisti ceceni scelsero il 1° settembre per attuare il loro piano. Cadeva infatti il Giorno della Conoscenza. Una ricorrenza con un valore fortemente simbolico, non solo perché rappresentava l’inizio dell’anno scolastico, ma perché proprio le scuole erano percepite come il cuore della comunità. Colpire una scuola piena di bambini significava non solo infliggere il massimo dolore psicologico, ma anche delegittimare lo Stato russo agli occhi del suo popolo, mostrando la sua incapacità a proteggere i più indifesi. Queste le prerogative per l’orrore che si manifestò sottoforma di violenza stragista nei primi tre dì del mese di settembre dell’anno 2004.
L’elemento più sconvolgente di Beslan resta la dimensione umana della tragedia. Circa 1.200 persone – in gran parte bambini – furono ammassate nella palestra, sotto minaccia costante, senza acqua né cibo, potenziali vittime di un caldo insopportabile. Molti minorenni furono costretti a bere urina o a rimanere in mutande per sopravvivere al calore. Di quelle scene restano le immagini, fatte uscire da lì dai rapitori, i quali avevano tutta l’intenzione di mostrare le debolezze del governo russo, incapace di agire, incapace di sbrigliare una situazione complessa, drammaticamente complessa.

Allo stesso modo restano le testimonianze dei sopravvissuti, a dir poco sconvolgenti, che hanno restituito l’immagine di un incubo collettivo. Bambini che svenivano per disidratazione, adolescenti portati via per essere abusati, adulti uccisi davanti ai propri figli per mera intimazione. In questa dimensione di disumanità, emergono anche gesti di resistenza silenziosa. I bambini che si abbracciavano per farsi coraggio, gli adulti che cercavano di proteggere i più piccoli, madri che cantavano per distrarre i figli dal pianto.
Il 3 settembre, dopo due giorni di stallo e trattative fallite – condotte da Leonid Rošal’, pediatra richiesto come mediatore dal commando, già protagonista del rilascio dei bambini durante la crisi del Dubrovka a Mosca, due anni prima – avvenne la svolta. Due esplosioni all’interno della palestra seguite da un assalto caotico delle forze speciali russe. Qui risiede uno degli aspetti più controversi. Non è ancora del tutto chiaro se le esplosioni iniziali furono provocate accidentalmente dai terroristi o da un’azione dei militari russi.

Ciò che è certo è che l’intervento fu rinfuso. In primis, i soldati non erano equipaggiati per un salvataggio di ostaggi così delicato; poi ci si mise l’incendio divampato nella palestra che non si riuscì a domare tempestivamente per mancanza di mezzi adeguati. Infine molti ostaggi morirono non solo per mano dei terroristi, ma anche per il fuoco incrociato durante l’assalto.
Quando si fece la conta delle vittime, i numeri suonarono sordi per quanto assurdi: 334 morti, di cui 186 bambini, oltre 700 feriti e decine di mutilati. Un trauma collettivo senza pari. In una città di appena 35.000 abitanti, quasi ogni famiglia perse un figlio, un parente o un vicino. Del commando terroristico non sopravvisse praticamente nessuno. Solo un sequestratore, Nurpaša Aburkaševič Kulaev, finì sotto arresto. Oggi sconta l’ergastolo, non si sa dove.

La strage di Breslan ebbe conseguenze profondissime e su più strati. Su un piano politico – per quanto sia estraniante parlare di politica di fronte ad un dolore così umano – la Russia, da che doveva risentire degli eventi, ne uscì rafforzata. Merito di Vladimir Putin. Egli usò la tragedia per giustificare un’ulteriore stretta autoritaria. Limitò infatti il sistema elettivo dei governatori regionali e rafforzò il controllo centrale di Mosca. Il presidente russo presentò la lotta al terrorismo come una “guerra patriottica”, inserendola in un quadro di difesa nazionale contro nemici interni ed esterni.
A livello locale quali furono le ricadute degli eventi di Breslan? Per l’Ossezia del Nord, essi acuirono divisioni etniche e religiose. La popolazione locale si sentì abbandonata dal governo centrale, mentre le famiglie delle vittime fondarono comitati civici che ancora oggi chiedono verità e giustizia. Il 3 settembre è oggi giornata di lutto in Ossezia. L’Albero del dolore presso il cimitero della città è diventato un luogo di ricordo importantissimo.