Almanacco del 26 agosto, anno 55 a.C.: Gaio Giulio Cesare dà il via alla prima delle due spedizioni militari che compirà in Britannia, nel più ampio contesto delle guerre di conquista in Gallia. Quella del 55 a.C. fu più una missione esplorativa, di ricognizione; lo dimostra il fatto che il generale romano si intrattenne sull’isola poco più di una settimana, riprendendo il largo il 4 settembre. Sarebbe tornato l’anno successivo, con intenzioni e ambizioni di gran lunga differenti.

Cesare era impegnato, ormai dal 58 a.C., nelle guerre galliche. Aveva già sconfitto gli Elvezi, i Germani e stava domando, uno dopo l’altro, i popoli gallici. Ma la sua campagna, oltre ad essere un capolavoro strategico-militare, voleva apparire altresì come un’impresa propagandistica, volta a costruire la sua immagine di comandante invincibile. La Britannia, per i Romani, aveva una doppia valenza. Sì, perché da un lato continuava ad essere un’isola leggendaria, avvolta dal mistero (di cui si parlava già da secoli come terra ricchezze; la sua esistenza era nota addirittura a Greci e Cartaginesi). Dall’altro, era un possibile retroterra di sostegno per i Galli, che spesso ricevevano aiuti dall’altra sponda della Manica.
Tenendo bene a mente questo quadro delle cose, Giulio Cesare trovò un pretesto perfetto: affermò che i Britanni intervenivano nelle guerre galliche in aiuto dei loro alleati, e che dunque era necessario colpire la fonte di quell’appoggio. La ricetta per l’invasione perfetta. Chiaramente c’erano anche (e soprattutto!) motivi politici ed economici per attraversare l’Oceanus Britannicus. Bisognava impressionare Roma con un’impresa senza precedenti e aprire nuovi canali commerciali verso l’isola.

Cesare radunò la sua flotta nel porto gallico di Portus Itius (identificato da molti con l’attuale Wissant, nella Piccardia). Mise insieme 80 navi da trasporto, che accompagnarono due legioni – la VII Claudia e la tanto amata X Equestris – e un contingente di cavalleria, che però avrebbe dovuto imbarcarsi separatamente su altre 18 navi, destinate a partire da un altro porto.
Nella notte fra il 25 e il 26 agosto, Cesare salpò, spinto anche dalla necessità di agire rapidamente prima che le tempeste autunnali rendessero insicura la navigazione. La traversata avviene in condizioni difficili, tanto che la cavalleria non riuscì a congiungersi all’armata principale, compromettendo fin da subito la spedizione.
Al mattino del 26 agosto, i Romani giunsero di fronte alle coste del Kent, nei pressi dell’odierna Walmer. Ad aspettarli vi erano i Britanni, informati dell’arrivo, che radunarono le loro forze sulla riva. È lo stesso Cesare a descriverci puntualmente nel De bello Gallico la difficoltà sperimentata nello sbarcare. I legionari dovevano discendere dalle navi in acque profonde, con armi e bagagli, mentre gli indigeni li aspettavano a terra, pronti a colpire.

Fu in questo frangente che l’episodio assunse quasi il tono di un’epopea. Infatti i Romani, esitanti, furono spronati da un aquilifero – sarebbe il portatore dell’aquila della legione – il quale si gettò in mare gridando che non avrebbe mai permesso che il simbolo sacro della legione cadesse nelle mani nemiche. Questo gesto spinse i soldati a seguirlo, consentendo lo sbarco. Dopo un duro combattimento, i Romani riuscirono a stabilire una testa di ponte e ad allestire un accampamento fortificato.
Seguirono diverse schermaglie: in due occasioni le forze romane ebbero la meglio, grazie anche all’aiuto dei contingenti locali filo-romani radunati da Commio, re degli Atrebati, che era stato inviato come emissario ma inizialmente imprigionato dai Britanni. Tuttavia, la situazione rimaneva instabile. Senza cavalleria, con approvvigionamenti scarsi e con l’inverno in arrivo, Cesare capì che non poteva sostenere una lunga campagna. Dopo circa dieci giorni in Britannia, decise di ritirarsi, avendo ottenuto poco più che la consegna di ostaggi da alcune tribù.

Sul piano strettamente militare, la prima spedizione britannica di Cesare non fu un grande successo, anzi. Non vi furono conquiste stabili, non si aprirono nuove basi e l’isola rimase saldamente indipendente. Ma sul piano politico e simbolico, l’effetto fu enorme… Soprattutto in quel di Roma.
Quando Cesare inviò il suo resoconto al Senato, nell’Urbe esplose l’entusiasmo. L’idea che un generale romano fosse riuscito a spingersi oltre l’oceano, ai limiti del mondo conosciuto, bastò perché il Senato decretasse venti giorni di feste pubbliche. Cesare si presentava come colui che portava l’aquila romana oltre i confini, in un territorio che per molti era quasi mitico.