Chiamatelo Đorđe Šagić, George/Jorge Fisher, Đorđe Ribar, tanto la sostanza non cambia, la sua è una di quelle storie tipicamente ottocentesche che convogliano preziose argomentazioni alla mia tesi di fondo (già esplicitata altrove…): quella per cui il Secolo Decimonono è il più pazzo, straordinario e insensatamente affascinante di tutti. Sbaglierò, ma dovete prima convincermi del contrario. E intanto passiamo al vaglio l’esperienza di vita di Šagić, un tipo che dalla Serbia è partito per andare ad immischiarsi in episodi di acerrima contesa geopolitica dall’altra parte del mondo, un mondo nuovo, ma strano. Come strana fu la parabola del nostro uomo. Di lui, delle sue gesta, e del contesto storico in cui operò mirabilmente voglio parlarvi quest’oggi.

Prima di iniziare con l’iter biografico del protagonista odierno, sottopongo alla vostra attenzione una vera e propria dichiarazione d’intenti. Mi spiego peggio. Se ho scelto di riflettere sull’esperienza di Đorđe Šagić, è per via della sua natura paradigmatica. La vita dell’avventuroso serbo attraversa continenti, insurrezioni e regimi politici; per questo diventa un osservatorio privilegiato su come il nazionalismo, la migrazione e le guerre civili plasmarono le società (atlantiche come balcaniche) del tempo. Ne consegue un’ovvietà: ripercorrerne la storia significa soprattutto restituire nero su bianco il contesto di mondi molto diversi – perché sì, la frontiera serbo-ottomana è agli antipodi degli Stati Uniti del primo Ottocento, del Messico post-indipendenza e di quel Texas alla vigilia della rivolta – che però trovano un filo conduttore nelle inquietudini e nelle opportunità dell’età delle rivoluzioni.
Conclusa la prefazione assolutamente non richiesta, concentriamoci sul “chi, come, quando”. Đorđe Šagić nacque nel 1795 nell’attuale Vojvodina, allora parte del regno asburgico d’Ungheria. I suoi genitori appartenevano alla minoranza serbo-ortodossa stanziata nei territori militarizzati di confine. Si trattava di una zona in cui la coscienza nazionale serba stava rapidamente maturando grazie al mix di tradizione ortodossa, memoria storica e crescente insofferenza contro il dominio ottomano più a sud. Non stupisce che fosse inviato al prestigioso seminario ortodosso di Sremski Karlovci, centro culturale della comunità serba sotto gli Asburgo. Ma proprio in quegli anni la prima rivolta serba contro gli ottomani (1804-1813) dava impulso a un movimento insurrezionale destinato a risvegliare l’idea di una Serbia autonoma.

Quando nel 1813 i turchi lanciarono una vasta offensiva per schiacciare la ribellione, il giovane Đorđe Šagić, invece di riparare in territorio sicuro come fecero molti ribelli, attraversò lui stesso la frontiera per unirsi alla lotta. Fece parte della “Legione di Slavonia”, unità paramilitare composta da volontari provenienti dai territori della monarchia danubiana. La disfatta finale costrinse molti insorti all’esilio, e Šagić, come tanti giovani balcanici in rotta, finì per attraversare l’Europa fino ad Amsterdam. Nella capitale nederlandese prese una decisione gravida di conseguenze: imbarcarsi per il Nuovo Mondo. Era il 1815, non proprio un anno anonimo della storia con la “S” maiuscola.
E mentre l’epopea del Bonaparte cedeva il passo alla Restaurazione, il nostro esule serbo viaggiava verso Filadelfia. Andò incontro ad un destino traumatico. Senza neppure uno spicciolo per pagare la traversata, lui e altri migranti furono trattenuti come redemptioners, poiché costretti a lavorare per saldare il debito. Redimersi, appunto. Ma Šagić, secondo la testimonianza della storica Claudia Hazlewood, guidò la fuga del gruppo e si dileguò fra le comunità portuali dell’Atlantico. Da quel momento adottò il nome George Fisher, un’identità più adatta alla contingenza geografica.
Sull’adattamento del nome esiste una storia, non so fino a che punto comprovabile, ma la riporto ugualmente. A quanto pare gli abitanti di Filadelfia credevano che Šagić, così come gli altri del gruppo, fosse un pescatore. Se masticate l’inglese, il nesso è evidente.
I primi anni negli Stati Uniti Fisher si svolsero all’insegna dello spostamento, costante e frenetico. Da Filadelfia, il serbo puntò il Mississippi. Qui ottenne la cittadinanza americana e iniziò una vita più stabile, sposandosi e avendo figli. Ma il suo temperamento irrequieto lo spinse ben presto verso un’altra frontiera ancora più mobile e fluida. Guardando a sud, c’era il Texas. O meglio: lo Stato messicano di Coahuila y Texas, dove il Texas rappresentava il vertice settentrionale dell’entità statale federata.

Nel 1825 viaggiò a Città del Messico e due anni più tardi tentò vanamente di ottenere un contratto come empresario, ossia agente incaricato di insediare famiglie su terre texane, come stava facendo con enorme successo Stephen F. Austin (considerato il padre del Texas indipendente, l’odierna capitale deve a lui il nome). Fisher nel 1829 prese la cittadinanza messicana e nel 1830 divenne amministratore del porto di Galveston.
Rimpicciolendo la lente dell’osservazione storica, e quindi allontanandoci per un attimo dalle dinamiche inerenti George Fisher, notiamo cosa fosse il Messico a quel tempo. La Prima Repubblica Messicana (1823-1835) attraversava allora un periodo di profondissima instabilità politica. Le lotte fra federalisti e centralisti, fra regioni autonome e governo centrale, rendevano la repubblica federale estremamente fragile. Il Texas, dove affluivano migliaia di coloni angloamericani in cerca di terre economiche e libertà economica, era un calderone di conflitti sociali e politici.
L’abolizione della schiavitù in Messico (1829) entrò immediatamente in rotta di collisione con i coloni provenienti dagli stati sudisti degli USA, che vi giungevano con persone ridotte in schiavitù. La tensione fra un ordine giuridico messicano più egualitario e gli interessi degli insediamenti schiavisti sarebbe stata una delle scintille decisive della futura Rivoluzione del Texas, del 1835-1836.
Nominato nel 1831 dal generale Manuel Mier y Terán come esattore doganale ad Anahuac, sul Golfo del Messico, Fisher si trovò improvvisamente al centro del ciclone. Il suo incarico prevedeva di riscuotere i dazi doganali e far applicare le leggi messicane. Capite bene come sia un’attività delicatissima in un territorio dove molti coloni anglofoni ritenevano illegittima qualsiasi restrizione imposta da Città del Messico.

Le politiche fiscali e doganali irritavano i coloni, ma gli scontri più intensi si verificarono sulla questione della schiavitù e sui limiti all’immigrazione angloamericana. Le frizioni aumentarono quando William Barret Travis (uno che qualche anno più tardi si farà notare ad Alamo) iniziò a fomentare l’opposizione contro Fisher e il comandante messicano Juan Bradburn. L’arresto di Travis e le proteste violente che seguirono sono oggi considerate dagli storici uno dei tanti segnali precoci della rivolta texana.
George Fisher, minacciato più volte, fu costretto a fuggire da Anahuac verso Matamoros. Da lì fondò un giornale, Mercurio del Puerto de Matamoros, impegnandosi apertamente contro il regime autoritario di Antonio López de Santa Anna. Ironia della sorte: lo stesso Santa Anna, di lì a poco, sarebbe divenuto il principale nemico anche dei ribelli texani. E se il nemico del mio nemico è mio amico…
Il crescendo degli scontri fra coloni texani e autorità messicane portò alla guerra aperta nel 1835. Inizialmente i ribelli dichiaravano fedeltà alla Costituzione messicana del 1824, non all’indipendenza. E se ci tengo a sottolinearlo, è per dimostrare quanto la retorica patriottica statunitense, incentrata sulla volontà secessionista texana e sull’abbraccio con Washington, sia un po’ pretestuosa. I texani sollevatisi nel 1835 non volevano staccarsi dal Messico, chiedevano piuttosto un ritorno al federalismo.

Se le cose andarono come andarono, fu a causa della risposta nettamente violenta di Santa Anna. Il suo centralismo ad ogni costo, così come l’abolizione delle autonomie locali e le campagne militari di repressione fecero il resto, rendendo la rottura inevitabile. Il famosissimo e decantato assedio di Alamo (23 febbraio-6 marzo 1836) divenne un grido di battaglia (“Ricordatevi di Alamo”) per gli statunitensi. Sam Houston, con una magistrale combinazione di ritirata strategica e offensiva fulminea, sconfisse Santa Anna nella successiva e decisiva battaglia di San Jacinto, assicurando l’indipendenza del Texas.
Nel trambusto il nostro Đorđe Šagić/George (Jorge) Fisher prese parte a combattimenti minori, schierandosi dalla parte delle milizie texane. Con queste condivideva il nemico, ossia il dittatore Santa Anna.
Dopo l’indipendenza, Fisher tornò a esercitare funzioni pubbliche nel nuovo Stato texano: giudice di pace, ufficiale di milizia, membro del consiglio municipale di Houston. Ma come sempre nella sua vita, nessun luogo lo trattenne troppo a lungo. Negli anni ’40 lasciò la terra per la quale aveva combattuto. Decise di mettere radici nella bella San Francisco, una città cosmopolita e in pieno sviluppo, dove concluse la carriera come console del Regno di Grecia. Perché sì. Ah, molto probabilmente sentì parlare di Norton I. Se non sapete chi fu questo personaggio, male male. Altro folle capitolo del XIX secolo negli States.

Morì nel 1873, dopo aver attraversato, letteralmente, i grandi movimenti che ridisegnarono il mondo fra Europa e Americhe: il nazionalismo balcanico, l’espansione statunitense, le lotte interne del Messico, la costruzione di nuovi Stati in Nord America.
La vita di Đorđe Šagić è un caso sorprendente, anche paradigmatico – come detto inizialmente – di come un individuo possa trovarsi ripetutamente addentro punti nevralgici della storia mondiale. Certamente non fu un rivoluzionario “di professione”. Meglio definirlo come un uomo che percorse gli spazi mobili delle rivoluzioni. L’identità serba, maturata nei seminari e nelle insurrezioni balcaniche, lo accompagnò nella migrazione verso l’Atlantico, ma si intrecciò con nuove lealtà politiche; leggasi statunitense, messicana, texana, greca. E se non è una storia assurda questa, ditemi voi quale possa essere.




