Sono passati oltre cinquant’anni dai tragici eventi del 17 dicembre 1973. Mezzo secolo durante il quale il mistero dietro l’atto terroristico non si è affatto diradato, al contrario, si è infittito, fino a rendere la dinamica stragista quasi “inafferrabile” e per questo destinata all’oblio. L’attentato di Fiumicino del 1973 è un episodio cardine della storia contemporanea italiana (primo attentato terroristico in un aeroporto italiano; intrecci con i processi giudiziari in corso nel Paese e con la geopolitica globale, con focus sull’intricato scenario mediorientale) eppure, per chissà quali ignoti motivi, non se ne sente parlare così spesso. Come se i 34 morti complessivi, i 15 feriti, i danni – materiali e immateriali – provocati e il polverone mediatico creatosi nel frattempo fossero cosa di poco conto. Ma non lo furono, e oggi cercheremo di capire perché.

L’aeroporto di Fiumicino esisteva solamente da 12 anni, essendo stato costruito nel 1961 con l’intento di decongestionare lo storico scalo di Ciampino. L’infrastruttura sorta sulla foce del Tevere aveva tutte le carte per primeggiare con i suoi pari in Europa. Piste larghe e capienti, volumi di traffico notevoli, capacità di accogliere e proporre voli internazionali. Il progetto su cui l’Italia del boom economico puntò tantissimo conobbe il 17 dicembre 1973 la sua pagina più oscura.
In quell’esatto giorno, cinque uomini palestinesi partiti dalla Spagna atterrarono all’aeroporto di Roma-Fiumicino, pochi minuti prima dell’una del pomeriggio. Durante il consueto tragitto in direzione del terminal dello scalo, i cinque rivelarono la loro identità di terroristi. Estrassero armi automatiche ed esplosivi ad alto potenziale; spararono sulla folla dirigendosi nel mentre sulle piste. La prima ondata di violenza incontrollata costò la vita a due passeggeri.

Il commando mirò quindi un Boeing 707 della Pan Am. Si trattava del Volo 110, diretto a Teheran con scalo a Beirut. Prima che il personale di bordo comprendesse la gravità della situazione e chiudesse, di conseguenza, gli sportelloni del velivolo, i terroristi riuscirono a gettare all’interno della fusoliera una granata al fosforo e altre due dirompenti. Si sarebbe verificato un eccidio ancor più grande se non fosse stato per la prontezza degli assistenti, i quali velocemente sbloccarono le uscite di sicurezza (quelle in prossimità delle ali), permettendo così la fuga di gran parte del passeggeri. Nonostante la premura, morirono in 30. Tra questi spiccavano 4 italiani: l’ingegner Raffaele Narciso, il funzionario Alitalia Giuliano De Angelis, di ritorno alla sede di Teheran con la moglie Emma Zanghi e la loro figlia Monica di 9 anni.
Anche solo leggendo queste poche righe, noterete una mancanza, o meglio, una componente teoricamente essenziale ma praticamente assente durante i primi attimi dell’attentato di Fiumicino. Dove erano le forze dell’ordine? Il pronto intervento armato si rivelò totalmente incapace e disorganizzato. Dalla torre di controllo partì l’allarme e il primo a presentarsi davanti l’aereo della Pan Am fu un ventenne della Guardia di Finanza, il molisano Antonio Zara. Provò a fermare i terroristi ma essi lo freddarono alle spalle.

Dei 117 agenti presenti a Fiumicino, solamente 8 erano addetti all’antisabotaggio (dunque con compiti di sorveglianza nelle aree critiche e gestione delle minacce). 8 persone, 8 per tutto Fiumicino. Siamo quel Paese in cui non si comprende la gravità di una tendenza fin quando non si concretizza la tragedia. Amara verità.
Dopo l’attacco al Volo 110, gli attentatori palestinesi presero il controllo di un Boeing 737 della Lufthansa. In funzione della loro fuga, lo dirottarono verso Atene, portandosi dietro equipaggio e ostaggi civili. Atterrati nella capitale greca, tuonarono contro le autorità elleniche di rilasciare due prigionieri palestinesi, autori anch’essi di un attentato nell’agosto di quell’anno nell’aeroporto di Atene. 16 ore di contrattazioni finirono in fumo quando, per ritorsione, il commando giustiziò l’italiano Domenico Ippoliti.
Qui s’inserisce un dettaglio che tanto ci dice sull’avventatezza del piano generale degli attentatori. Il dettaglio riguarda il rifiuto pronunciato dai detenuti palestinesi in Grecia di fronte alla richiesta di unirsi ai dirottatori. Alla risposta negativa, il commando riprese quota, senza sapere con esattezza dove poter atterrare. Libano e Cipro negarono l’arrivo; mentre la Siria acconsentì ma solo temporaneamente. Infine il Boeing 737 dirottato atterrò a Kuwait City, dove i prigionieri furono liberati e gli attentatori palestinesi tratti in arresto.

Il post attentato di Fiumicino fu, se vogliamo, ancor più convulso e confusionario. Il governo del Kuwait pensò in primis di consegnare i terroristi all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Quest’ultima non ne volle sapere e rispose picche. Allora intervennero delegati diplomatici europei, statunitensi e arabi: non si riuscì a trovare una quadra. Roma chiese, ma non ottenne, l’estradizione dei terroristi. Dato che mancavano accordi bilaterali in materia fra il nostro Paese e il Kuwait, la richiesta decadde e l’Italia non calcò la mano.
In seguito ad accordi internazionali, si riuscì a far processare i cinque attentatori di Fiumicino in un tribunale egiziano. Il presidente Anwar al-Sādāt acconsentì a patto che la responsabilità del processo ricadesse sull’OLP. Condannati alla reclusione, rimasero in carcere fino al 24 novembre 1974, quando un altro dirottamento in Tunisia, eseguito esplicitamente per richiedere la loro scarcerazione, ebbe successo. Con la complicità dei governi occidentali e arabi, i cinque palestinesi tornarono in libertà, e di loro si perse ogni traccia.
Domande e dubbi, come si diceva in apertura. Non si sa perché gli attentatori fecero quel che fecero (si ipotizza tuttavia un legame fra gli eventi del 17 dicembre 1973 e il processo penale contro palestinesi autori di un altro assalto di matrice terroristica avvenuto a Ostia). Non si capisce perché l’Italia reagì con così poca convinzione alla tragedia. Ciò che invece risulta evidente, è che a vincere fu l’impunità, oltre che il silenzio sull’attentato di Fiumicino, un silenzio pesantissimo, ancora oggi incompreso e incomprensibile.




