Cosa non si fa pur di finire da un’altra parte, basta che non sia il paradiso, lontani quanto più possibile dagli spagnoli, tuoi aguzzini. Almeno questo è ciò che passò nella mente del capo Hatuey, cacicco dell’isola di Hispaniola, uno dei primi indigeni a ribellarsi ai conquistadores e all’imposizione del cristianesimo in quello che gli europei consideravano un “Nuovo Mondo”.

Nato sull’isola di Hispaniola (spartita oggi fra Haiti e Repubblica Dominicana) e appartenente al popolo Taíno, Hatuey assistette in prima persona alla violenza e alla distruzione portate dagli europei nel suo mondo, quando, a partire dal 1492, gli uomini di Colombo trasformarono quelle isole in campi di sterminio e sfruttamento. Divenuto testimone dell’annientamento del suo popolo, Hatuey decise di ribellarsi e di portare la lotta oltre i confini della sua isola, verso Juana (l’odierna Cuba), dove gli spagnoli si preparavano a sbarcare.
Nel 1511, Diego Velázquez de Cuéllar, inviato dal governatore Diego Colombo Moniz (unico figlio di papà Cristoforo) per conquistare l’isola, trovò davanti a sé un nemico inatteso. Hatuey, comprendendo il destino che attendeva i popoli indigeni di Cuba, salpò con circa 400 guerrieri su piccole canoe, deciso ad avvisare e organizzare gli abitanti dell’isola contro l’invasione imminente.

Fu in questo contesto che il capo pronunciò il discorso destinato a renderlo immortale. Davanti ai suoi uomini mostrò un cesto colmo d’oro – il “Dio degli spagnoli”, come lo definì – e disse: “Ecco il Dio che essi adorano. Per lui combattono e uccidono; per lui ci perseguitano e ci riducono in schiavitù. Ci parlano di un Dio di pace, ma si comportano come bestie assetate di sangue”.
Le sue parole, riportate dal frate Bartolomé de Las Casas nella Brevísima relación de la destrucción de las Indias (1552), sono tra le più accese denunce dell’ipocrisia religiosa che accompagnò la conquista. Gli spagnoli, venuti con il crocifisso in mano, dicevano di voler convertire gli indigeni. Ma il loro vero obiettivo era il metallo giallo che chiamavano oro, simbolo e causa di tutte le loro atrocità.

Nonostante il suo coraggio, Hatuey non trovò largo seguito a Cuba. Molti indigeni, ignari della potenza distruttiva dei nuovi arrivati, non si unirono alla resistenza. Egli però condusse per mesi una guerriglia disperata, fatta di imboscate e sabotaggi, che mise in difficoltà le truppe spagnole. Alla fine venne catturato dopo il tradimento di alcuni locali e condannato a essere bruciato vivo il 2 febbraio 1512. Era lo stesso destino di che gli spagnoli, talvolta pretestuosamente, definivano “eretici” o “idolatri”. Ed è proprio in questo tragico momento che si colloca l’episodio più celebre e simbolico della sua vita: il dialogo con il frate che cercò di convertirlo prima dell’esecuzione.
Il religioso, mosso dal desiderio di “salvare la sua anima“, gli chiese se voleva accettare il battesimo per poter entrare in paradiso. Hatuey, con una calma che colpì profondamente i presenti, chiese allora se in quel paradiso vi andassero anche gli spagnoli. “Sì,” rispose il frate, “quelli che sono buoni cristiani.” Fu allora che il capo, ispirato dalla classica ironica di chi non ha più nulla da perdere, pronunciò le parole che ne avrebbero consacrato la leggenda: “Allora preferisco andare all’inferno, per non incontrarli mai più”.

Non aveva torto il caro buon vecchio capo Hatuey. Se il paradiso era abitato da uomini crudeli e sanguinari, allora era l’inferno, e non il cielo, il luogo più giusto per un uomo onesto. Uno specchio riflesso come mai prima di allora.
Scherzi a parte. Questo episodio, tramandato dallo stesso Las Casas, ha assunto un valore che va ben oltre il fatto storico. Nella figura di Hatuey si condensa la prima voce di protesta morale del continente americano contro il colonialismo europeo.

Oggi, a Cuba, Hatuey è venerato come il primo eroe nazionale. La sua immagine appare in monumenti, libri e racconti popolari. Il suo nome è associato a una delle birre più famose dell’isola, segno di quanto la sua memoria sia entrata nel cuore del popolo. Ma la sua eredità va oltre il mito patriottico. A pensarci bene, Hatuey rappresenta la voce di tutti coloro che, nella storia, hanno rifiutato la sottomissione imposta in nome della civiltà o della religione. E così, nel fuoco che ne consumò il corpo, nacque la leggenda immortale del cacique Hatuey, il “primo ribelle d’America”.




