Almanacco del 9 ottobre, anno 1967: il rivoluzionario, guerrigliero, scrittore, politico e medico argentino Ernesto “Che” Guevara viene giustiziato senza processo da soldati dell’esercito boliviano. Il giorno prima, le forze armate del Paese sudamericano, coadiuvate dalla CIA, lo avevano catturato nei pressi di una minuscola scuola nella provincia di Vallegrande.

Il 9 ottobre 1967, in una piccola scuola di La Higuera, sperduto villaggio boliviano nella provincia di Vallegrande, si consumò l’epilogo della vita di Ernesto “Che” Guevara, una delle figure più iconiche e controverse del Novecento. Solo ventiquattro ore prima, il Che era stato catturato vivo, ferito ma ancora combattivo, dalle truppe dell’esercito boliviano dopo un lungo scontro nella gola del Yuro. La cattura segnava il fallimento della sua campagna di guerriglia in Bolivia, ma soprattutto preludeva a un’esecuzione che sarebbe presto divenuta un caso politico e simbolico di portata mondiale.

Guevara era giunto in Bolivia nel 1966 con l’ambizione di accendere un nuovo focolaio rivoluzionario sul modello cubano, immaginando che la Bolivia rurale potesse diventare il cuore pulsante della rivoluzione continentale. La realtà si rivelò molto diversa. Mancò prima di tutto il sostegno contadino. Per non parlare delle difficoltà logistiche, immense e quasi insormontabili. Poi c’era il governo boliviano, che godette di un decisivo appoggio statunitense. La Casa Bianca mise a disposizione consiglieri militari e agenti della CIA per raggiungere il suo scopo ultimo. La guerriglia, isolata e braccata, finì rapidamente in trappola.
La mattina del 9 ottobre, dopo ore di attesa in prigionia, arrivò l’ordine da La Paz. Il presidente René Barrientos Ortuño non voleva rischiare che un processo trasformasse il Che in un martire politico. Si decise quindi di procedere con un’esecuzione sommaria, da mascherare, se possibile, come morte in combattimento. Sul sottufficiale Mario Terán, scelto tra i soldati, ricadde il compito di sparare. Guevara, consapevole della sorte che lo attendeva, rifiutò di piegarsi e affrontò i suoi ultimi istanti con fermezza. Le testimonianze riportano le sue ultime parole rivolte al carnefice: «Lei è venuto a uccidermi. Stia tranquillo, lei sta per uccidere un uomo».

Trasportarono il colpo del Che a Vallegrande e lo mostrarono a giornalisti e militari come trofeo di guerra. Una scena che a molti suggerì un macabro parallelo con la raffigurazione del Cristo morto: il volto sereno, la barba incolta, gli occhi semichiusi. Le immagini fecero il giro del mondo e, anziché cancellarne il mito, contribuirono a rafforzarlo.
Per anni, i resti di Guevara rimasero occultati in una fossa comune. Questo fino al 1997, quando li ritrovarono e li trasferirono a Cuba, nel mausoleo di Santa Clara, città simbolo della sua vittoria rivoluzionaria del 1958.

La morte del Che segnò la fine della sua avventura guerrigliera in America Latina, ma non riuscì a spegnere la sua eredità. Al contrario, trasformò Guevara in un mito planetario. Non più soltanto il comandante argentino-cubano, ma il simbolo universale della ribellione, del sacrificio e della lotta contro l’imperialismo. Se da un lato la sua scomparsa rappresentò un duro colpo per il movimento rivoluzionario latinoamericano, dall’altro contribuì a farne un’icona senza tempo, capace di trascendere i confini politici e diventare figura culturale, estetica e ideologica del XX secolo.
Il 9 ottobre 1967 fu sì la data della morte di un uomo, ma anche il momento in cui nacque un mito destinato a vivere ben oltre la sconfitta militare, alimentando dibattiti, passioni e controversie fino ai giorni nostri.