Fotografia della Biblioteca del Congresso USA, Miami, Stati Uniti d’America, 15 dicembre 1941. Una donna si gode il giorno libero rilassandosi sulla spiaggia di Miami. La persona in questione ci tiene a palesare, nel modo più esplicito possibile, di non essere giapponese, bensì cinese. Esattamente per questa ragione, assieme ad un telo da mare, una rivista, la crema solare e qualche frutto rinfrescante, la donna porta con sé un enorme bandiera nazionalista della Repubblica Cinese. Lo scatto storico mi permette di introdurvi a una tematica abbastanza importante per la storia politico-sociale novecentesca; ovvero di quanto fosse complicato e sconveniente essere asiatici negli USA di quegli anni.

La donna di cui si è detto nel paragrafo introduttivo ha un nome e un cognome. Ruth Lee era una cameriera di un ristorante cinese a Miami. Come tanti altri della sua stessa comunità, volle rimarcare la sua appartenenza alla nazione cinese. Ciò per non incappare nell’odio razziale americano – prima latente, poi esacerbato e istituzionalizzato – contro gli asiatici in generale, ma in particolare contro i giapponesi. Chiunque scattò l’iconica fotografia, lo fece a una settimana di distanza dal 7 dicembre 1941. Sì, il 7 dicembre che cambiò la storia degli Stati Uniti d’America e di conseguenza quella della Seconda guerra mondiale. Era freschissimo l’attacco nipponico a Pearl Harbor.
Per molti americani bianchi dell’epoca, le differenze tra giapponesi, cinesi, coreani o filippini non erano affatto chiare. Spesso si identificavano tutti indistintamente come “giapponesi” (e prima del ’41 accadeva il contrario, ovvero che su tutti gli asiatici cadesse il pregiudizio covato sin dalla metà dell’Ottocento contro i cinesi) con il rischio di subire discriminazioni, insulti o perfino aggressioni fisiche.

Lo scenario geopolitico internazionale poi faceva tutto il resto. All’epoca, la Repubblica di Cina era alleata di Washington contro il Giappone. La Seconda guerra sino-giapponese (iniziata nel 1937 con l’invasione giapponese della Cina) si era già saldata con il conflitto mondiale, facendo della Cina uno dei pilastri della coalizione anti-Asse.
Il gesto di Ruth Lee non era isolato. In molte città americane, ristoranti, negozi e comunità cinesi esponevano cartelli e bandiere per distinguersi dai giapponesi e dimostrare pubblicamente la propria lealtà alla nazione ospitante e agli Alleati in generale.
Per i sino-americani, la guerra offrì infatti una contraddizione drammatica: da un lato subivano le stesse forme di razzismo e marginalizzazione riservate a tutte le minoranze asiatiche, dall’altro la posizione internazionale della Cina alleata degli Stati Uniti offriva loro l’opportunità di guadagnare maggiore riconoscimento sociale. Ed è questo un punto a mio parere centrale dell’intera questione. La comunità cinese in Nord America sapeva quanto fosse persistente l’odio razziale, perché l’aveva sperimentato sulla propria pelle fin dalla seconda metà del XIX secolo.

Ne abbiamo discusso in tante occasioni, ma è giusto spendere qualche parola in merito. Ondate migratorie cinesi riguardarono gli USA soprattutto in occasione della corsa all’oro californiano. Non meno rilevante fu lo sfruttamento di immigrati cinesi per la costruzione della ferrovia transcontinentale. A seguito della crisi finanziaria globale degli anni ’70 dell’Ottocento, l’aria in America si fece abbastanza pesante. Si guardava al cinese come un parassita, uno da dover espellere o, come minimo, segregare. La politica statunitense intercettò l’astio dell’opinione pubblica e nel 1882 il Congresso partorì il Chinese Exclusion Act.
Il 7 dicembre 1941 cambiò le carte in tavola. Da minoranza avversata, la comunità cinese divenne amica. Tutto in funzione anti-nipponica, s’intende. Un membro del Congresso disse nel 1943 che se non fosse per Pearl Harbor, il popolo statunitense non avrebbe mai davvero compreso quanto “buoni” fossero i cinesi d’America.