Che scenario, eh! Roma, la città del papa, privata del sommo pontefice a causa di un omaggio fatto dalla cittadinanza a colui che osò sfidare l’infallibilità del sapere teologico, per questo considerato eretico e in nome del sacro oscurantismo religioso, arso vivo in pubblica piazza il 17 febbraio dell’anno 1600. La statua di Giordano Bruno, eretta a distanza di 289 anni dal rogo di Campo de’ Fiori, creò un caso tutto italiano – aggettivo quanto mai azzeccato visti i tempi che correvano e la città teatro dell’accaduto – il quale presto mutò in una controversia di stampo internazionale.

In una sorta di ironica ritorsione morale, come solo la Storia sa fare, l’esclusivo ricordo del frate domenicano fece traballare il trono di San Pietro. Lungi dall’essere un’esagerazione, cerchiamo qui di capire in che modo e secondo quali logiche un monumento, carico di un oneroso simbolismo, per poco non fece scappare la massima autorità dell’Universitas Christiana via dall’Urbe, sua millenaria residenza.
Roma non era nuova a questo specifico tipo di affronto. Già nel 1849, nel pieno dell’effimera esperienza repubblicana, la città si era abbellita di un monumento dedicato a Giordano Bruno. Trapassata l’euforia mazziniana e restaurata l’autorità temporale del vescovo di Roma, la scultura sparì come in un trucco di magia. Qualcuno se la legò al dito, attese la stagione risorgimentale e, una volta resa la città bagnata dal Tevere capitale effettiva del Regno d’Italia, ritornò alla carica proponendo di erigere una seconda statua in onore del compianto Bruno.

Il peso della responsabilità ricadde su un comitato di universitari capitolini, dichiaratamente anticlericale, che propose come luogo in cui edificare il monumento la stessa Campo de’ Fiori. A volerla dire tutta, l’idea fu di Armand Lévy – personaggio storico dalla caratura eccezionale sul quale un domani spenderò più di due parole. Comunque, la proposta piacque e non piacque. Ad esempio alcuni docenti universitari di spicco quali Bernardo Spaventa e Antonio Labriola (patriota liberale il primo, materialista interessato ad istanze marxiste il secondo) si dissero favorevoli. Esponenti dell’amministrazione romana, possidenti di una certa voce in capitolo nelle questioni di Stato, invece si misero di traverso in nome di una neppure troppo celata vena filo-clericale.
Piccolo salto temporale fino al 1879, anno in cui Ettore Ferrari, scultore, politico e massone italiano, sventolò una bozza del progetto di fronte agli uffici della romana Inquisizione. Più che altro fu un gesto di sfida, un modo per attirare l’attenzione sul tema. Ferrari vinse la scommessa, poiché sempre più uomini di cultura s’accostarono alla causa. Su spinta della massoneria europea, nel 1885 nacque un comitato per la costruzione del monumento. Si respirava un certo internazionalismo. Aderirono al progetto personalità quali Victor Hugo, Michail Bakunin, Ernst Haeckel, e ancora gli italiani Giosuè Carducci, Cesare Lombroso e Pasquale Villari. Molti altri assieme a loro.

Giugno 1888, mese ed anno della svolta. L’interessamento alla questione della politica italiana, pendente il quel momento dall’attivismo di Francesco Crispi, smosse le carte in tavola. Alle elezioni comunali i moderati clericali alzarono bandiera bianca; ciò permise ai liberali avversi al Vaticano di salire in cattedra. L’iter per la statua di Giordano Bruno poteva dirsi decisamente avviato.
A gennaio dell’anno successivo si deliberò sull’esatta collocazione, ovvero al centro di piazza Campo de’ Fiori. Il 9 giugno 1889 il frate domenicano, di bronzo costituito, con sguardo tanto severo quanto giudizioso, si rivelò alla cittadinanza capitolina. Guardava oltre il Tevere, oltre Castel Sant’Angelo, persino oltre il colonnato leonino. Mirava al cuore della Chiesa cattolica, il quale vicario quasi tre secoli addietro aveva “invitato il giudice inquisitore a procedere con la sentenza”, di fatto condannando a morte l’imputato domenicano. Esattamente come era accaduto un anno prima con Beatrice Cenci, ma questa è un’altra storia che chi ci segue da tempo già conosce…
Torniamo a noi. La statua di Giordano Bruno fu per tanti simbolo di libertà contro le catene dell’oscurantismo. Per altri rappresentò un insulto all’autorità. Fra quanti la pensavano in questo modo, troviamo papa Leone XIII. Si dice che subito dopo l’inaugurazione, il pontefice abbia pregato in ginocchio di fronte una statua di San Pietro, denunciando “la lotta ad oltranza contro la religione cattolica”. Leone XIII, al secolo Vincenzo Gioacchino Raffaele Luigi Pecci, condannò con veemenza l’inaugurazione della statua. Con lui la stampa pontificia, lesta nel denunciare il “monumento a Bruno” come uno schiaffo alla religione e un “trionfo dell’empietà“.

Oltre le parole di biasimo, si rischiarono provvedimenti più arditi. La Santa Sede prima minacciò la scomunica per chi avesse preso parte alla cerimonia – partecipatissima fra l’altro. Poi protestò ufficialmente presso il governo italiano, ma senza ottenere alcuna concessione. Anzi, sembra che il papa si dimostrasse volenteroso nel togliere le tende e recarsi (molto probabilmente in via temporanea, eh…) in Austria-Ungheria. Per la felicità dell’ultracattolico imperatore Francesco Giuseppe… Al che il presidente del consiglio Francesco Crispi commentò la paventata gita austriaca con un draconiano “Se Sua Santità dovesse andare via dall’Italia non potrà più tornare”. Crispi la toccò piano, pianissimo.
Allora riuscite ad immaginarvela: una Roma spogliata della sua tiara?