Roma, 13 dicembre 1980: gli anni pesanti contraddistinti da rapimenti e morti violente non sono ancora finiti e questa volta a vedere in faccia la morte sarà un giudice: Giovanni D’Urso. Nato a Catania il 4 agosto del 1933, giudice da decenni, all’epoca ricopriva il ruolo di direttore dell’ufficio III della direzione generale degli istituti di prevenzione e pena presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Un momento storico di sicuro non favente alle personalità come la sua e D’Urso, purtroppo, lo scoprirà sulla sua pelle.

Il venerdì 12 dicembre 1980, nel quartiere Aurelio di Roma, improvvisamente un commando entra in azione. Come ogni tattica delle Brigate Rosse, anche questa era studiata nei minimi dettagli. Il bersaglio è il nostro protagonista odierno, quel giudice che tante torture e vessazioni provocò ai proletari, secondo chi lo rapì almeno… Giovanni D’Urso fu però solo un uomo coraggioso che compiva, in un periodo storico pesantissimo, il suo lavoro. Un lavoro difficile e reso ancor più pericoloso dall’andazzo di quegli anni.
Per una personalità di spicco, si scelsero gli uomini migliori: a guida del commando c’era niente di meno che Mario Moretti in persona. Per chi non lo conoscesse, parliamo di una delle teste di serie delle BR: riorganizzatore e modernizzatore delle strutture terroristiche, creatore di nuove frange di terroristi a Genova e Roma e, ultimo ma non per importanza, organizzatore ed esecutore materiale del Rapimento di Aldo Moro.

Il 13 dicembre, giorno seguente l’agguato, arriva il tanto temuto comunicato delle BR, con la storica foto riportata in apertura. Giovanni D’Urso è in mano ai terroristi della sinistra estrema extraparlamentare. Per trattare (perché chi è in posizione di forza vuole sempre trattare a proprio vantaggio) si chiede la chiusura del carcere dell’Asinara. Sull’isolotto sardo venivano reclusi, specie in quegli anni, soprattutto i membri delle Brigate Rosse. La richiesta era quindi, inevitabilmente, molto pretenziosa.
Bettino Craxi si fece subito promotore della chiusura del penitenziario all’interno del suo partito, considerando questa misura necessaria. Adolfo Sarti, allora Ministro di Grazia e Giustizia, adempì al volere del segretario del PSI e dei brigatisti. Molti di quest’ultimi, trasferiti nel carcere di Trani, avviarono una sanguinosa rivolta nel corso di un fallito tentativo di evasione, placata infine dall’intervento dei GIS.
Nonostante tutto, il 4 gennaio, il parallelo tribunale rivoluzionario emesse la condanna a morte del giudice. Perché? Per poter trattare ancora. Questa volta la richiesta era la lettura e pubblicazione dei comunicati delle BR sui giornali nazionali.

In molti si opposero e proposero la linea dura, tranne che i radicali. Quest’ultimi concessero il loro spazio sulla RAI alla famiglia D’Urso per leggere i comunicati brigatisti. La figlia del giudice, Lorena D’Urso, lesse pubblicamente pezzi di testo dei rapitori e definì, sotto costrizione, suo padre “il boia D’Urso“. Alla fine tutto servì e fu necessario in funzione di quanto avvenne in seguito. Il 15 gennaio, in Via del Portico d’Ottavia, c’era un uomo in catene, ma libero. Sembra ossimorico, colui che metteva le catene ora le aveva addosso, e al contempo finiva la sua prigionia, o meglio il suo rapimento. Giovanni D’Urso era vivo, ma le Brigate Rosse avevano vinto un tira e molla non indifferente.