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Tamerlano alle porte di Delhi, il resto è storia

Tamerlano alle porte di Delhi, il resto è storia

L’anno 1398 si avvia a conclusione, ma c’è ancora tempo per un’altra grande, enorme, spropositata campagna militare. A condurla c’è lui, Tīmūr Barlas, che le fonti occidentali coeve chiamano semplicemente Tamerlano. Ebbene, l’emiro al vertice di uno degli imperi più vasti che la storia ricordi, vuole depositare in penombra la memoria di personaggi che l’hanno preceduto e che, come lui, hanno volto lo sguardo ad est, mirando la “città delle spezie e dei profumi” e desiderandone l’assoggettamento. Ma per loro restò un desiderio mai esaudito. Quei “personaggi” rispondevano al nome di Alessandro Magno e Gengis Khan; la città in questione era Delhi. Tīmūr lo Zoppo sarebbe riuscito in un’impresa titanica, mettendo in piedi una macchina bellica incredibile e dando vita ad un assedio infame, persino per gli standard dell’epoca.

Tamerlano alle porte di Delhi, il resto è storia

Tīmūr nasce in una forbice di tempo che va dal 1320 al 1336 nei pressi di Kesh, odierno Uzbekistan. Senza ripercorrere per filo e per segno le sue gesta, ci basti sapere che riuscì a replicare quanto fatto dal condottiero mongolo da cui sosteneva di discendere, Gengis Khan. Quindi costruì un impero capace di dominare le steppe turco-mongole, le oasi persiane, le regioni del Caucaso e il cuore stesso della Transoxiana. Autoproclamatosi “emiro” per delega dei discendenti gengisidi e quindi legittimo continuatore dell’eredità mongola, Timur combinò la ferocia guerriera nomade con una ragguardevole capacità amministrativa (cosa fece con Samarcanda, l’abbiamo già visto in tempi non sospetti).

E proprio dalla “nobile cittade”, il fondatore dell’Impero timuride condusse campagne ininterrotte per oltre trent’anni: Persia, Mesopotamia, Anatolia, il Caucaso, la steppa russa. Nel 1398 rivolse la sua attenzione all’India. Perché proprio l’India? Testimonianze dirette che contribuiscano a circoscrivere le ragioni per cui Tamerlano puntò il Sultanato di Delhi non esistono (o meglio, ci sono, ma sono oltremodo faziose e non del tutto limpide). Malgrado l’assenza di fonti, un’idea, per quanto astratta, ce la possiamo fare.

Il Sultanato di Delhi era ricchissimo, ma davvero tanto. La sua capitale, Delhi, era il riflesso ozioso di questa inestimabile prosperità materiale. Prenderla avrebbe significato introiti fondamentali per continuare a sorreggere l’impero e, cosa più importante, per proseguire nella sua inarrestabile espansione. Poi c’era la ragione storica, di autolegittimazione: riuscire laddove Alessandro III di Macedonia e Gengis Khan, avevano fallito, significava porsi un gradino sopra due mostri sacri della storia umana. Tamerlano credette di essere l’uomo giusto al momento giusto, visti i torpidi politici che il sultanato stava vivendo.

Tamerlano estensione Impero timuride

Di queste dinamiche dobbiamo per forza parlare, altrimenti non capiremmo il senso dell’azione timuride. Il sultanato era allora retto dalla dinastia Tughlaq, ma la sua potenza era ormai gravemente intaccata. Guerre civili, ribellioni provinciali e un’autorità centrale ridotta a poco più di un’ombra avevano lasciato il paese frammentato. Mahmud II, il sovrano in carica, dominava formalmente su Delhi ma dipendeva quasi completamente dal suo visir Mallu Iqbal Khan. Le province – in particolare quella influente di Multan – agivano da potentati quasi indipendenti.

Il nostro colse immediatamente questa debolezza. Gli giunsero notizie di province insubordinate, pretendenti al trono, eserciti provinciali che ignoravano gli ordini della capitale. Tamerlano si sforzò anche di escogitare un pretesto ideologico-religioso pur di avvalorare la sua invasione. Accusò i Tughlaq di scarsa ortodossia (erano musulmani, ma a detta dello Zoppo lasciavano troppo potere agli induisti) e dichiarò la sua spedizione una “guerra santa“. A noi può anche sembrare un’argomentazione dai piedi d’argilla, ma all’epoca era quanto bastava per presentare l’imminente conflitto come un atto pio, oltre che ottenere un rafforzamento della propria immagine di “difensore della fede”.

L’ingresso nel subcontinente non fu privo di ostacoli naturali. Le montagne dell’Hindu Kush erano da secoli un baluardo contro invasioni massicce. A differenza di altri conquistatori – il già citato Alessandro re di Macedonia aveva dovuto ricorrere alla ben più semplice corruzione – Timur affrontò direttamente le popolazioni ivi presenti, guidando personalmente una colonna scelta di uomini attraverso passi considerati impraticabili. L’esito fu devastante… ma per i montanari! Un dato su tutti: prima di calare sul Punjab, il seguito di Tamerlano si arricchì di 100.000 uomini. Erano tutti schiavi. A rigor di logica dobbiamo ridimensionare la cifra, ma anche se fosse un quarto del totale, beh…

Tamerlano guerra XIV secolo

Dopo avere riunito le sue forze dove oggi c’è Kabul, l’esercito attraversò il passo del Khyber (dove solo uno su 16.000 ce la fa!) e discese nel Punjab. Qui si presentò la seconda grande barriera: il reticolo imponente dell’Indo e dei suoi cinque affluenti. Gli ingegneri timuridi, tuttavia, erano addestrati a costruire e smantellare ponti a grande velocità. Fiumi e giungle rallentarono la marcia, ma non la fermarono.

Pir Mohammed, nipote di Tīmūr, aveva già penetrato il sultanato in primavera, assediando Multan – quasi la seconda capitale – senza che alcun esercito tentasse di soccorrere la città. Quando Tīmūr arrivò personalmente, Multan cadde dopo sei mesi di resistenza durissima e fu brutalmente saccheggiata. Seguendo l’esempio dell’ipotetico discendente, Tamerlano sentenziò: clemenza per chi si arrende, distruzione totale per chi resiste. Centri cittadini, indù e musulmani, senza distinzione, subirono lo stesso destino di Multan. Come se fosse necessario dimostrare che la Jihād era soprattutto una giustificazione retorica.

Nel frattempo, sempre più nobili musulmani abbandonavano Mahmud II per passare dalla parte del conquistatore. Era il sintomo più evidente del collasso politico del sultanato. Delhi però conservava un arsenale formidabile, assolutamente da non sottovalutare. Da quelle parti giungeva la fama di un esercito in grado di ricorrere a degli esplosivi incendiari e, come Alessandro Magno ebbe a vedere, agli elefanti da guerra. Una linea di 100 pachidermi corazzati, in pieno stile indiano. Le cronache timuridi raccontano che persino i veterani di Samarcanda, temprati dalle campagne contro armate mongole, persiane e caucasiche, provarono inquietudine nel sentire le storie su quelle bestie gigantesche, piattaforme mobili da cui gli arcieri del sultano colpivano dall’alto.

Tamerlano statua Uzbekistan

Tīmūr, tuttavia, aveva già anticipato la natura del confronto. La battaglia si svolse alla fine del 1398 in campo aperto, una scelta disastrosa per Mahmud II che, preferendo lo scontro diretto all’assedio, offrì a Timur il terreno ideale. Il conquistatore aveva trasformato lo spazio di battaglia con una serie di accorgimenti tipici della tradizione nomade ma applicati con ingegno. Scavò trincee e eresse palizzate nei punti sensibili del fronte; disseminò il terreno di triboli così da impedire la corsa degli elefanti. Tamerlano fece anche incatenare degli animali da soma (forse bufali), formando una barriera vivente per disturbare il fronte nemico.

Quando gli elefanti caricarono, le difese timuridi li disorientarono quasi immediatamente. So cosa state pensando: “sì, ma la storia dei cammelli incendiati…”. Il celebre racconto dei cammelli in fiamme spinti contro i pachidermi compare nelle cronache tarde. Mentre le fonti coeve non ne fanno menzione. Se fosse accaduto davvero, lo avrebbero scritto e sottolineato a più riprese. Qualunque sia la verità, l’esito fu lo stesso. Gli elefanti, feriti e terrorizzati, si rivoltarono contro le linee del sultanato. A quel punto l’esercito di Mahmud II crollò. I due comandanti fuggirono verso Delhi, lasciando i loro uomini allo sbaraglio.

Ah, ricordate i fantomatici 100.000 prigionieri in coda all’esercito timuride? Si dice che Tīmūr, ancora alla vigilia della battaglia, li fece ammazzare. Sostenne che stessero preparando una rivolta e che, essendo infedeli, la loro eliminazione fosse legittima. La decisione rimane una delle più controverse della sua biografia e viene interpretata dagli storici come un atto di intimidazione calcolata, destinato a obbligare Mahmud II ad abbandonare la difesa urbana per affrontarlo in campo aperto.

Tamerlano celebra conquista Delhi

Arrivato alle porte di Delhi, la città si arrese senza opporre resistenza. Fin dai primi giorni, gli ufficiali di Tīmūr organizzarono riscatti, requisizioni e la consegna dei tesori. Da quel che intuiamo, qualcosa dovette andare storto e la situazione degenerò. Tra il 22 e il 25 dicembre 1398, Delhi fu travolta. Ci furono grossi incendi, orrendi massacri, una distruzione sistematica e la deportazione di artigiani, studiosi e burocrati. Gli abitanti superstiti furono ridotti in schiavitù; le cronache sottolineano che perfino i soldati di grado più basso tornarono a Samarcanda con decine di prigionieri.

Nei primi mesi del 1399 Tamerlano lasciò l’India con un immenso bottino e nessun interesse a stabilire un governo stabile. Affidò Multan e le regioni circostanti a Khizr Khan, un nobile che gli era passato dalla parte, ma non cercò di incorporare il sultanato nel proprio impero. Delhi, devastata e spopolata, impiegò quasi un secolo a riprendersi. La già vacillante dinastia Tughlaq crollò definitivamente.

Politicamente, l’invasione timuride accelerò il processo di frammentazione regionale che avrebbe caratterizzato l’India del XV secolo. Culturalmente e demograficamente, l’impatto fu immenso. Curiosamente, quasi un secolo dopo, un discendente di Tīmūr avrebbe percorso lo stesso cammino con esiti tutt’altro che effimeri. Nel 1526, Bābur, pronipote dell’emiro, gettò le fondamenta dell’Impero Moghul, una delle più grandi potenze della prima età moderna su scala globale. Il cerchio timuride, in un certo senso, si chiudeva proprio a Delhi.