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Silvio Pellico litografia carcere

Silvio Pellico e la fortezza dello Spielberg: le sue prigioni, la nostra storia risorgimentale

Il Risorgimento italiano è uno dei fenomeni più intriganti ed intricati della nostra storia nazionale. Secondo alcuni storici cominciò subito dopo il Congresso di Vienna (1815) e proseguì fino all’Unità d’Italia, o alla presa di Roma, il 20 settembre del 1870. Una delle figure cardine di tale processo fu proprio Silvio Pellico, autore del famosissimo libro-denuncia “Le mie prigioni“. Di traverso fra le righe di quest’opera leggiamo una descrizione accurata del carcere-fortezza dello Spielberg, dove egli trascorse 15 anni di duro carcere.

Per aggiungere un po’ di qualità alla lettura di tale evento non possiamo esimerci dal presentare un consorzio di uomini noto come Carboneria, di cui Pellico ed i suoi compagni (anche di carcere) facevano parte. Senza dilungarci troppo, possiamo dire che la Carboneria fu una società segreta risorgimentale, nata nei primi anni del XIX secolo e che condivideva valori liberali e fortemente patriottici. Molti furono i moti di stampo insurrezionalista contro il governo austroungarico e ciò condusse lo scrittore, Piero Maroncelli, Federico Confalonieri ed altri carbonari dritti in cella.

Passiamo ora a vedere come si viveva nelle fredde e buie stanze dello Spielberg. Vi erano sostanzialmente tre classi di detenuti: quelli considerati colpevoli di reati più gravi, i quali si trovavano in una situazione definibile di “carcere durissimo”; altri (come Pellico e Maroncelli) al carcere duro; poi c’erano i criminali minori, che scontavano la pena in maniera relativamente più tranquilla. Vediamo cosa volevano dire queste tre denominazioni.

Il carcere durissimo era un tipico esempio di nomen omen, era davvero invivibile. I condannati a tale tipo di pena erano legati con una catena al proprio fianco e avevano un raggio di movimento molto limitato. Che significa? Si potevano muore a malapena intorno al tavolo. Pellico e gli altri patrioti condannati al carcere duro avevano anche una catena, ma questa volta al piede, e gli era consentito spostarsi intorno a tutta la cella (non grandissima).

Essi avevano inoltre, a differenza dei primi, l’obbligo di lavoro. In particolare tagliare la legna e cucire a maglia. La scadenza prefissata era una calza a settimana e, se non rispettata, comportava il salto del pasto. Quest’ultimo non era di sicuro una prelibatezza. Si trattava di farina soffritta col lardo due volte l’anno e poi servita nel corso dei 365 giorni. Molti sceglievano infatti il vitto ospedaliero, leggermente migliore anche se molto scarso (tre minestrine al giorno e pochissimo agnello).

Le tre ispezioni giornaliere e quella mensile più approfondita rendevano poi quasi impossibile scrivere, poiché vietato salvo che in rari casi. Per aggirare il divieto si utilizzavano pezzi di unghia e stuzzicadenti come penne e medicinali e succhi di erbe come inchiostri. Pellico ricevette la grazia dopo 8 anni di carcere duro, nel 1830. Due anni dopo scriverà il suo capolavoro. Se vi capita di leggerlo, ricordate come visse per 8 lunghissimi anni della sua vita.