Homo novus, l’uomo che, pur non avendo antenati illustri nella vita pubblica romana, è in grado di distinguersi ed emergere prepotentemente nella scena sociale e politica dell’Urbe. Fra i primi e più importanti homines novi della storia romana, si leva alto nel cielo il nome di Gaio Mario, colui che ruppe tutti gli schemi possibili entro i quali l’esistenza della Res Publica si era adagiata, volete per estremo ossequio delle tradizioni o per naturale accomodamento (perché cambiare quando tutto sembra andare bene?). Gaio Mario fu tra le figure più influenti dell’intera storia repubblicana romana ed oggi siamo qui per trovare una giustificazione ad un titolo che definire lusinghiero è dire poco.

Nato nel 157 a.C. ad Arpino, nel Latium, Mario proveniva da una regione integrata a fatica nel tessuto della cittadinanza romana: i diritti civili erano stati concessi agli arpinati solo nel 188 a.C. Ciò rende ancora più straordinaria la sua ascesa. Il primo passo nel cursus honorum lo compì attraverso la militanza militare. Nel 134 a.C. era già al servizio di Scipione Emiliano nella campagna di Numanzia, in Spagna. Plutarco, nelle sue Vite, racconta che Scipione riconobbe subito l’acume e il potenziale del giovane ufficiale, arrivando persino a lodarne pubblicamente il talento. E se lo diceva Scipione Emiliano, nipote adottivo dell’Africano, allora c’era da crederci.
Insomma, grazie a questa stima, Mario ottenne l’elezione a tribuno militare, iniziando così ufficialmente la sua carriera pubblica. Tuttavia, le neonate ambizioni politiche sembrarono essere soffocate nella culla. Sappiamo come non riuscì a ottenere né una carica ad Arpino, né il posto di questore a Roma. Cosa fare? Non restava che candidarsi al tribunato della plebe. Carica che, nel caso non lo sappiate, fungeva un po’ da ponte verso il favore popolare.
Il nostro ce la fece! Eletto nel 119 a.C., Mario sgomitò e infine riuscì a far approvare la Lex Maria. Un bel traguardo, poiché col favore della legge era stato ridefinito il percorso d’accesso ai comizi elettorali. Il fine ultimo era solare: Gaio Mario intese limitare sensibilmente l’influenza dei grandi patroni sui loro clienti. Una riforma che se da un lato aumentò la trasparenza elettorale dall’altro gli alienò l’appoggio dei Metelli (gens che a Roma contava “qualcosa” e con la quale fino ad allora aveva coltivato sostanzialmente buoni rapporti). Ecco spiegato l’isolamento politico che colse Gaio Mario in quegli anni, durante i quali non ottenne chissà quale grande riconoscimento pubblico.

Anche se di misura, divenne pretore. Il Senato lo assegnò al governo della Spagna Ulteriore (114–112 a.C.), dove in poche parole fece due cose: combatté i briganti e si arricchì attraverso le risorse minerarie locali. Lo facevano tutti i magistrati provinciali, chi era lui per esimersi? Ecco, appunto. Nel 110 a.C., consolidò ulteriormente la sua posizione sposando Giulia, zia di un ideale (sarebbe nato a distanza di dieci anni) Gaio Giulio Cesare. Da non sottovalutare la portata politica dell’unione matrimoniale. Vinceva Mario perché finiva per accostarsi alla prestigiosa – ma non prestigiosissima – gens Iulia. Vinceva altresì il nome dei Giuli, che non esprimevano un console ormai da decenni, e con Gaio Mario tornavano a cavalcare l’onda pubblica romana. Come dicono quelli bravi: si trattava di un accordo win-win.
Andrebbe fatto adesso un discorso sulla comune prospettiva senatoriale inerente la figura e l’operato di Gaio Mario. Per ragioni di spazio e tempi, mi limiterò a dire questo: Plutarco dipingeva Mario come un umilissimo figlio di braccianti – cosa non vera; nelle vene del nostro scorreva sangue patrizio – e di conseguenza il Senato a Roma intravedeva in Mario un outsider, come detto nelle primissime battute, un homo novus. Si spiega così il perché di un iniziale percorso politico in salita. Ma proprio questa condizione rese ancora più straordinaria la sua affermazione come protagonista della vita pubblica capitolina a cavallo tra II e I secolo a.C.
Giunge l’anno 112 a.C. e il regno di Numidia viene scosso da una sanguinosa guerra civile. Il nome Giugurta vi dice qualcosa? Chi fra voi ha la memoria più fervida, lo ricorderà come uno dei pretendenti al trono numida. Egli mosse guerra ai fratellastri, e nel corso del conflitto non esitò a massacrare numerosi mercanti italici residenti nella provincia d’Africa. Roma fece un veloce calcolo costi-opportunità. Dopo averci pensato un po’, in tutto il suo distinto pragmatismo disse che “no, i mercanti non si toccano”. Dunque il Senato approvò l’entrata in guerra e guerra fu.

Le prime spedizioni militari della Res Publica si tramutarono un insonoro buco nell’acqua – per non dire alto; e quando fallisce, Roma non desidera altro che rivalsa. Vendetta che assunse la forma di un generale 48enne. Sì, proprio lui, Gaio Mario. È lo storico e senatore Sallustio a raccontarci di questa lunga e tormentata guerra – nota come guerra giugurtina – che scrisse circa mezzo secolo dopo gli eventi.
Gaio Mario fece il suo ingresso nel conflitto nel 109 a.C. con il grado di legato anziano, al fianco del console Quinto Cecilio Metello. La sua figura emerse presto come decisiva in diverse operazioni militari. Ne racconto una a rappresentanza di tutte le altre: Romani e Numidi si fronteggiano in prossimità delle sponde del fiume Muthul, solo che i legionari non se la passano benissimo. La cavalleria leggera numida ha colto di sorpresa le linee repubblicane, frammentando la fanteria in piccoli gruppi sostanzialmente vulnerabili. Fra le fila romane si inizia a parlare di imminente massacro. Il preludio è tuttavia quello di una rimonta insperata, che porta la firma indelebile del legato Gaio Mario. Egli riesce a prendere il comando di circa 2.000 uomini, organizza una colonna compatta, sfonda le linee nemiche e si ricongiunge con Metello. Giugurta è costretto alla ritirata.
La società romana si nutriva di storie del genere, considerate alla stregua di linfa vitale per la gloria della città caput mundi. La popolarità del generale natio di Arpino crebbe non solo fra i soldati, con i quali condivideva i pasti e le fatiche quotidiane, ma anche tra i mercanti italici della regione, che ne apprezzavano prima di tutto la determinazione e lo spirito risolutivo. Mario – che se voleva allargà – sostenne persino che, con la metà delle truppe di Metello, avrebbe potuto porre fine alla guerra in pochi giorni. Anche meno Mario, anche meno.

Forte del crescente consenso, Mario decise di candidarsi al consolato per l’anno 108 a.C., ma si trovò di fronte l’ostilità di Metello, che si rifiutò di autorizzare il suo rientro a Roma. Non meno velata era l’asetticità del Senato, il quale (anche se non all’unanimità) gradiva più lo stesso Metello – nominato vincitore dei Numidi, Numidicus – o l’altro eroe della campagna africana, il luogotenente Lucio Cornelio Silla. Di lui si parlerà ancora, ma forse già lo sapete.
Dopo uno stancante tira e molla, Mario strappò l’autorizzazione per tornare a Roma. Allora il generale seppe sfruttare l’insoddisfazione di una buona parte dell’élite al potere e per questo fu eletto console per l’anno 107 a.C.
In questo esatto spaccato cronologico, s’inserisce una delle questioni più rilevanti dell’operato mariano. Consapevole del fatto che avrebbe avuto bisogno di truppe fresche per chiudere il conflitto, Mario introdusse una novità importante. Seguitemi nel ragionamento: poiché i proprietari terrieri, base tradizionale del reclutamento, erano ormai esausti, ottenne l’autorizzazione a chiamare alle armi veterani e cittadini nullatenenti, promettendo una certa remunerazione in cambio del servizio militare. Lungi dall’essere una riforma strutturale dell’esercito romano, la misura segnò un precedente di grande impatto. In poche parole: qualcuno se ne sarebbe ricordato e avrebbe replicato.
Mario salpò per l’Africa con una cavalleria rinnovata, seguito a breve distanza dalla fanteria guidata dal suo questore, Lucio Cornelio Silla. Arrivato nel settentrione africano, Mario comprese come la vittoria rapida e indolore apparteneva alla sfera dell’irrealizzabile. Le truppe di Giugurta masticavano tattiche – seppur rudimentali – di guerriglia. Praticamente non si arrivava mai ad uno scontro decisivo, a discapito delle legioni, progressivamente logorate.

Qualcosa sembrò sbloccarsi nel corso del 107 a.C., quando Gaio Mario riuscì a sconfiggere le forze nemiche nei pressi di Cirta e si lanciò in una rischiosa marcia nel deserto per sorprendere la città di Caspa. L’assalto ebbe successo e Mario non mostrò clemenza alcuna. Fece massacrare gli in armi, ridusse in schiavitù i sopravvissuti e lasciò le sue truppe libere di saccheggiare la città. Il messaggio per Giugurta era forte e chiaro.
Il re numida, messo alle strette, cercò rifugio presso il suocero Bocco, sovrano di Mauritania. Sebbene quest’ultimo fosse inizialmente riluttante a compromettersi con i Romani, l’aggressività di Mario lo indusse a intervenire. Le truppe numide e mauritane si unirono e attaccarono Mario nel deserto. I Romani resistettero fino al tramonto e, all’alba del giorno successivo, colsero di sorpresa il nemico, assaltando il campo africano e infliggendo una netta sconfitta. Se pensate che la guerra finì così, allora vi sbagliate di grosso. Giugurta sfuggì alla cattura e finché fosse rimasto a piede libero, Roma non poteva cantare vittoria.

Quello che non si riuscì ad ottenere con spade, archi e scudi, si guadagnò con la diplomazia. Ambasciatori della Repubblica trattarono con Bocco. Al re di Mauretania e suocero del sovrano numida venne proposta un’alleanza e la cessione di parte dei territori di Giugurta in cambio della sua consegna. Il capo dell’ambasciata rispondeva al nome di Lucio Cornelio Silla. Quest’ultimo guidò con successo le trattative e ottenne la custodia di un Giugurta oramai messo alle strettissime.
Quando Mario rientrò trionfalmente a Roma nel 104 a.C., Giugurta fu esibito nel corteo del trionfo e successivamente rinchiuso nelle segrete del Carcere Mamertino. Sotto il regime di cattività, morì di stenti. Tuttavia, il successo della campagna sollevò interrogativi circa il vero artefice della vittoria: se da un lato era Mario a ricevere gli onori ufficiali, dall’altro Silla non esitava a rivendicare per sé il merito della cattura del nemico. Quella che in apparenza sembrava una disputa secondaria si sarebbe rivelata, col tempo, l’inizio di una rivalità epocale. Ma di questa – e di molto altro – si parlerà nella seconda parte dedicata all’uomo che stravolse gli schemi della Repubblica Romana.