Sulla lapide d’ingresso, alzando lo sguardo, si legge “Nós ossos que aqui estamos pelos vossos esperamos”, ovvero “Noi ossa che qui stiamo, le vostre aspettiamo”. Abbastanza tetro come monito, ma doveva piacere parecchio ai francescani che nel XVI secolo fecero costruire questo incredibile monumento dedicato alla caducità della vita, alla morte e alla speranza di una quiete esistenza dopo il trapasso. Non potevamo che trovarci in Portogallo, più nello specifico ad Évora, città-museo nota per essere stata a lungo la residenza dei monarchi lusitani, per ospitare innumerevoli testimonianze archeologiche d’eccezionale valore storico-culturale e, ultima ma non di certo per importanza, per essere lo sfondo entro il quale s’inserisce la vicenda storica della Capela dos Ossos, forse la “stranezza” più famosa della città.

La Capela dos Ossos (lett. Cappella delle Ossa) è una cappella interna situata sul fianco della chiesa di San Francesco, ad Évora. Il nome e le immagini che già avrete notato non lasciano chissà quanto spazio all’immaginazione. Si tratta di un ambiente decisamente singolare, in cui ci si può sentire in soggezione, se non addirittura a disagio. Ossa su ossa disposte in modo tale da rendere “armonico” il tono della struttura, sacrale e contemplativo per sua natura.
Chi desiderò, in quel lontano scorcio di Cinquecento, una siffatta decorazione? Un frate francescano mosso da uno spirito cecamente controriformista. Volendo far ragionare i confratelli sulla fievolezza dell’esistenza terrena e sul mistero della morte, il frate fece riammodernare la Capela dos Ossos. Al tempo nei dintorni cittadini esistevano tanti, troppi cimiteri. Terra preziosa che non poteva essere occupata dai corpi progressivamente tumulati. Urgeva una soluzione, e al più presto.

Si pensò dunque di costruire un ambiente in cui poter stipare – con fare artistico, ovviamente – le ossa in eccesso. Crani, femori, clavicole: tutto faceva brodo. I religiosi la guardarono anche in un’ottica moralistica: i cittadini di Évora, notoriamente benestanti e legati ben più al materiale che all’astratto, una volta entrati nella cappella avrebbero finalmente spalancato gli occhi sulla precarietà della condizione umana in terra. Così si spiegava il messaggio con cui ho introdotto l’approfondimento. Si vive in funzione della morte, unificatrice della specie umana e non solo.

Ah, c’è anche un pizzico d’Italia nella storia della speciale cappella lusitana. Questa fu definitivamente completata nel pieno Settecento (anche se qualche ritocchino architettonico lo fecero ancora nel XIX secolo). All’epoca Giovanni V di Braganza, re di Portogallo, aveva appena visitato la chiesa milanese di San Bernardino alle Ossa – posto che vi invito a visitare nel caso in cui capitiate a Milano, merita davvero – e ne rimase affascinato. Il sovrano di Casa Braganza apprezzò soprattutto lo sposalizio fra il concetto stesso di morte e la sopraffine sensibilità artistica tipicamente barocca. Volle una cosa simile ad Évora, ed ecco che la Capela dos Ossos assunse la fisionomia che detiene ancora nel presente.

Faceva (e fa ancora oggi) il suo gran bell’effetto: oltre 5.000 corpi “possono dire” di far parte dell’arredamento. In una minuscola bara vicino l’altare ci sono anche le ossa ammucchiate dei tre francescani che fondarono la chiesa tre secoli prima del restyling cinquecentesco. Vicino la croce si possono scorgere anche le membra essiccate di due persone: un adulto e un bambino.
Naturalmente la visione di ciò potrebbe generare nella persona una marcata sensazione nauseabonda. Tranquilli, i francescani hanno pensato a tutto. Verso l’uscita laterale della Capela dos Ossos si possono leggere due scritte rassicuranti. Una recita “muoio nella luce”, l’altra – secondo me ancor più calzante – reca il messaggio “il giorno in cui morirò sarà migliore del giorno in cui nacqui“.