Dopo aver trattato la vicenda di Guillén de Lampart, da una parte degli storici letterari considerato la fonte d’ispirazione principale per la creazione del personaggio di Zorro, oggi ci concentriamo sull’altra ipotesi; forse quella che, assieme al caso Lampart, rappresenta il collegamento più concreto al mitico Don Diego de la Vega, identità celata dalla maschera di zorriana memoria. La versione di cui voglio parlarvi non trae la sua essenza storica dal Messico di metà Seicento, ma dalla California in piena corsa all’oro, dunque pieno, anzi, pienissimo XIX secolo. Capito il “dove”, cerchiamo di individuare il “chi”. Il protagonista di questa vicenda si chiama Joaquín Murrieta Carrillo, uomo dalle mille vite, condensate in una sola. Per tanti fu un mascalzone, un bandito efferato; altri invece videro in lui un novello Robin Hood, un patriota messicano, un eroe da romanzo…

Dati anagrafici prima di tutto. Joaquín Murrieta Carrillo (talvolta trascritto Murieta o Murrietta) nasce ad Álamos, nello Stato di Sonora, Stati Uniti Messicani, il 12 gennaio 1829. Il nostro crebbe in un Messico ancora segnato dalle tensioni politiche e sociali successive all’indipendenza. Purtroppo i primi passi di Murrieta nel mondo dei grandi sono avvolti da una fitta nebulosa di dubbi e incertezze. Chiaramente dove la fattualità arretra, avanza l’inventiva. Quindi tanto si scrisse sul suo conto (soprattutto dopo che il natio di Álamos finì sulla bocca di un continente intero), ma nella stragrande maggioranza dei casi senza cognizione di causa.
La narrazione romantica è tuttavia nota. Di lui si fece un simbolo della ribellione contro l’ingiustizia e il razzismo. Fattori sociali discriminanti che travolsero i messicani durante la corsa all’oro californiana degli anni ’50 dell’Ottocento.

Secondo la versione più accreditata, Murrieta si trasferì in California nel 1849. Il 20enne era spinto, come migliaia di altri, dalla speranza di trovare fortuna nelle miniere. Ma quel mondo scintillante di promesse si rivelò presto un inferno di violenza, avidità e disparità. I minatori anglo-americani, che già guardavano con sospetto gli stranieri, riservavano ai messicani e ai cinesi un disprezzo ancora più feroce. Insomma, ci si riduceva ai classici accanimenti vessatori: tasse discriminatorie, pestaggi, linciaggi e soprusi. D’altronde era meglio un messicano morto che uno vivo a metà (10 punti a chi coglie la citazione).
Teniamo a mente questo clima, che fa da sfondo alla nascita della leggenda. Appunto, la stessa leggenda a dirci che Murrieta, dopo aver trovato un filone d’oro e attirato l’invidia dei bianchi, sia stato brutalmente picchiato, che la sua giovane moglie sia stata stuprata e uccisa, e che il fratellastro sia stato impiccato senza processo. Fonti attendibili di quanto descritto non ve ne sono. Ognuno ne tragga le conclusioni che preferisce…
Al di là dei validi dubbi storiografici, è in questo trauma che molti collocano la nascita del “bandito giustiziere”. Ferito nell’animo e umiliato, Murrieta avrebbe giurato vendetta contro coloro che gli avevano tolto tutto. Da quel momento, lasciò la miniera per le sierre e si unì a una banda di compatrioti, uomini che, come lui, avevano perso famiglia e dignità nelle mani dei nuovi padroni statunitensi. Guidò la sua compagnia in una lunga serie di assalti, razzie e imboscate contro coloni e carovane, spostandosi tra le valli e le montagne della California meridionale.

Le cronache del tempo riferiscono che la “banda di Joaquín” – composta da circa 20 o 30 uomini al massimo, molti dei quali parenti o amici di Murrieta – si dedicava al furto di cavalli e all’attacco di convogli commerciali. Secondo lo storico Frank Latta, autore del volume Joaquín Murrieta and His Horse Gangs (del 1980, se vi interessa, dategli un’occhiata), la banda praticava un traffico illegale di cavalli tra California e Messico, rubando centinaia di esemplari e rivendendoli oltre il confine. Ma dietro l’immagine del semplice ladro si celava un’ombra più complessa. Murrieta agiva anche per vendicare le violenze subite dai messicani, tanto che tra le sue vittime vi furono diversi minatori e rancheros americani coinvolti in soprusi contro gli ispanici.
Col tempo, le sue gesta divennero leggenda. In molti lo descrivevano come un vendicatore nobile e generoso, capace di proteggere i poveri e punire i prepotenti, mentre per le autorità era un pericoloso fuorilegge responsabile di omicidi e saccheggi. Si dice che la banda avesse ucciso più di 40 persone, tra cui 28 minatori cinesi e 13 americani, anche se queste cifre restano oggetto di dibattito. A voler cercare la fantomatica verità nel mezzo, oserei dire come santi proprio non fossero, ma neppure delle carogne della società spinte dalla sete di denaro e sangue. Parere personalissimo che vale quel che vale.
Tornando al racconto, nel 1853 la fama di Murrieta era tale che la legislatura californiana approvò una legge per catturarlo a ogni costo. Il nuovo Stato della California (nato tre anni prima) si dotò di un’unità speciale, all’incirca una ventina di uomini: i California State Rangers. A guidarli il capitano Harry Love, un ex Texas Ranger.

La taglia su Murrieta era di 1.000 sonanti dollari, una cifra enorme per l’epoca. Dopo settimane di inseguimenti, il 25 luglio 1853, nei pressi di Arroyo de Cantua, nella regione di Coalinga, i ranger si scontrarono con una banda di messicani. Tre di loro ci rimisero la vita, e Love sostenne che uno fosse il temibile Joaquín Murrieta. Per provarlo, i ranger decapitarono l’uomo e mozzarono la mano al suo luogotenente, Manuel García detto Jack Tre Dita, conservandole in una boccia di alcol che venne esibita a Stockton e San Francisco come macabro trofeo.
Ma proprio questa prova alimentò il mito più che spegnerlo. Molti dubitarono che quella testa fosse davvero la sua. Alcuni testimoni dissero di averlo visto vivo anche anni dopo, rifugiato in Messico o a sud di Los Angeles. La sorella di Murrieta, intervistata decenni dopo, giurò che la testa non apparteneva a suo fratello. Così, come spesso accade quando si cerca di soffocare il fuoco del mito con la violenza, il mito stesso sopravvive alla morte. Joaquín Murrieta Carrillo divenne una figura sospesa tra il concreto e l’inventato, certamente si elevò a simbolo della resistenza dei messicani contro l’oppressione americana.
La fama del bandito crebbe enormemente nel 1854, quando lo scrittore cherokee John Rollin Ridge pubblicò la dime novel (genere che riprende dai penny dreadful britannici, quindi racconti brevi, veloci da leggere, in italiano diremmo “da quattro soldi”) The Life and Adventures of Joaquín Murieta. Si trattava di una biografia romanzata che mescolava fatti, invenzioni e idealizzazione. Il libro ebbe un successo travolgente. Lo tradussero in francese e in spagnolo, trasformando Murrieta in un eroe romantico internazionale. Una sorta di bandito gentiluomo che rubava ai ricchi per restituire ai poveri. La sua leggenda attraversò l’oceano e divenne uno dei miti fondanti del folklore californiano. Tutto quello che oggi vi sto dicendo, è in parte merito dell’opera di Ridge, che amplificò – forse anche troppo – l’eco del Murrieta fuorilegge/eroe.

Da allora, Joaquín Murrieta è stato interpretato come prototipo di Zorro, il giustiziere mascherato creato nel 1919 da Johnston McCulley nella serie di cinque libri The Curse of Capistrano (La maledizione di Capistrano). Da sottolineare il passivo nella precedente composizione della frase. Infatti McCulley non ha mai scritto o detto di essersi ispirato all’originario di Álamos. Allo stesso modo, per correttezza d’informazione, non mi risulta abbia mai affermato di aver tratto informazioni dalla vicenda di Guillén de Lampart.
Ancora oggi la figura di Murrieta divide – giustamente, aggiungo – gli storici. Per alcuni fu un crudele e basta. Ma per altri, vestì i panni del ribelle patriota, dell’uomo travolto dalla violenza di un’epoca in cui i messicani erano diventati stranieri nella propria terra dopo il Trattato di Guadalupe Hidalgo del 1848. L’accordo che consegnò la California (alta) agli Stati Uniti.

Piccola chicca finale, che non aggiunge quasi nulla all’intero racconto, ma lascia quantomeno un sorriso. Alzi la mano chi non ha visto La maschera di Zorro del 1998, girato e diretto da Martin Campbell? Dai, quello con Antonio Banderas nei panni di Zorro! Ecco, ricordate per caso il nome del personaggio amico e compagno d’armi di Don Diego de la Vega? Esatto, la memoria non vi inganna, perché quell’ex ribelle messicano nella pellicola porta il nome di Joaquín Murrieta.
La fine che fa è abbastanza emblematica. Durante uno scontro a fuoco, il capitano Love (anche questo un nome indicativo) uccide Joaquín. Dopo la morte di Joaquín, è suo fratello Alejandro Murrieta (interpretato da Antonio Banderas) a raccogliere l’eredità del giustiziere, diventando il nuovo Zorro sotto la guida di De la Vega. Se aveste chiesto a Campbell chi fu l’uomo da cui nacque il mito di Zorro, beh, vi avrebbe dato una risposta chiara e tonda.




