Il sole era apparso da poco all’orizzonte e la città si stava svegliando man mano. Sembrava una giornata come tutte le altre, perché alla fine è sempre così quando accadono le catastrofi. L’ordinarietà, noiosa per sua natura, venne squarciata dal tremore improvviso di case, edifici, strade e parchi. Era il 19 settembre del 1985, data in cui il terremoto di Città del Messico, di magnitudo 8,1 sulla scala Richter, causò gravissimi danni oltre che enormi disagi. Si potrebbero raccontare tante storie a tal riguardo, ma oggi ne scelgo una, forse la più nota al grande pubblico. Una vicenda che a tratti ha del miracoloso.

Tra le tante strutture crollate e subito scandagliate, i soccorritori prestarono attenzione su una in particolare: l’ospedale Juarez. La prima violenta scossa, della durata di quattro minuti, buttò giù l’edificio. Forze dell’ordine e civili si misero subito alla ricerca dei dispersi, nella speranza che il conteggio dei morti non salisse ulteriormente. Già a migliaia avevano perso la vita (alla fine le stime parlarono di una forbice indefinita che andava dalle 10.000 alle 45.000 vittime, con più di 30.000 feriti accertati), con danni materiali che toccarono ben presto i 5 miliardi di dollari. Un’ecatombe senza pari nella storia della città.
Tornando all’ospedale Juarez, dalle sue macerie non si estrassero che morti fino alla notte del sesto giorno. All’ennesima richiesta di “Silencio!“, uno dei volontari soccorritori udì un pianto infantile. Immediatamente si formò una squadra d’estrazione, che nel giro di una decina di minuti associò al vagito un volto. Era una bambina, successivamente identificata come Elvira Rosas. Incredibile solo pensarlo: aveva sei giorni di vita. Il mondo l’aveva accolta un paio d’ore prima del sisma.

L’evento accese una fiamma di speranza nel cuore di tutti coloro che scavavano nell’area. Se ce l’aveva fatta Elvira, allora quante potevano essere le probabilità di trovarne altri come lei? Dopo un’ora e mezza circa, un secondo miracolo. I soccorritori estrassero un neonato di otto giorni. Il 28 settembre diversi quotidiani internazionali comunicarono che i cosiddetti “bambini del miracolo” erano ben sei. Fonti posteriori aumentarono il numero a più di dieci.

Il terremoto di Città del Messico aveva colpito chiunque. Una catastrofe naturale che falcidiò senza distinzioni di genere, età o condizione sociale. Ma quei bambini si salvarono e qualcuno, tra l’euforia dell’episodio e il dramma del contesto, si chiese come fosse solo plausibile una cosa del genere. Il dottore Rolando Cuevas Uribe ipotizzò che la sopravvivenza dei piccoli fosse dovuta all’ingente quantità di liquidi presente nei loro corpi, in quanto neonati. Stando agli interventi dei pediatri, neonati in quelle specifiche condizioni – perciò senza cibo e con ristretta capacità di movimento – consumerebbero 50 calorie al giorno, corrispondenti a una perdita di fluidi contenuta (qualcosa come meno di 100 grammi).

Cuevas disse che avrebbe “aiutato” anche lo stato di dormiveglia o semi-ibernazione dei bambini sotto le macerie. In una simile condizione, la respirazione si affievolisce e il battito rallenta, con un conseguente risparmio di forze ed energie. Ad avvalorare la tesi ci sarebbero i resoconti dei successivi test clinici: curiosamente tutti i neonati persero la stessa quantità di peso (a parità di tempo trascorso sotto le macerie).