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Foto del giorno: l'aborto e il caso Pierobon

Foto del giorno: l’aborto e il caso Pierobon

Fotografia di Sandra Busatta, Piazza Insurrezione, Padova, 5 giugno 1973. Imperversa la manifestazione indetta dal movimento femminista italiano per il caso Pierobon. Suddetto caso prese nome da Gigliola Pierobon, all’epoca 23enne, figlia di contadini, nata nel padovano e processata per aver abortito clandestinamente sei anni prima, nel 1967, quando di anni ne aveva 17. La sua storia divenne all’improvviso la storia di milioni di donne, decise a combattere per un diritto sino ad allora osteggiato, proibito, calunniato: il diritto all’aborto.

Foto del giorno: l'aborto e il caso Pierobon

In quell’Italia dei primi anni ’70 abortire era un grave reato. Questo perché il famigerato codice Rocco, codice penale emanato nel bel mezzo del Ventennio, considerava la pratica un crimine “contro l’integrità e la sanità della stirpe”. Secondo la stessa raccolta di norme, se una donna fosse incorsa nel reato, avrebbe rischiato dai tre ai cinque anni di prigione, con facoltà di riduzione della pena nel caso in cui “il fatto è commesso per salvare l’onore proprio o quello di un prossimo congiunto”. Sembra un tetro anacronismo e invece era la realtà del diritto penale italiano ancora nel secondo Novecento.

Vista l’arretratezza della legge, molte donne ricorrevano a pratiche abortive clandestine. Non solo erano costose, ma proprio perché illecite, potevano risultare pericolose e inaffidabili. Una delle tante sfortunate fu proprio la protagonista del caso Pierobon. Gigliola Pierobon rimase incinta di un uomo molto più vecchio di lei, il quale, non appena seppe della gravidanza, l’abbandonò al suo destino. La giovane Gigliola si rivolse ad una mammana – termine con cui si indicavano le donne che eseguivano gli aborti – e quasi non ci rimise la vita. Una sonda di ferro varcò il canale uterino per recidere l’utero. Tutto questo senza anestesia o antibiotici.

caso Pierobon Gigliola

L’operazione spartana le procurò una brutta infezione, che fortunatamente riuscì a curare in tempo, e le costò la bellezza di 40.000 lire, prestate dall’amico nonché futuro marito Roberto Cogo. Con quest’ultimo ebbe una figlia, salvo poi concordare una separazione. Lavorando in fabbrica, Gigliola entrò in contatto con il gruppo Lotta Femminista, grazie al quale maturò una certa coscienza sociale e politica.

Passati quattro anni dall’aborto, Pierobon ricevette nel 1972 la notifica di rinvio al giudizio da parte del tribunale di Padova. La donna avrebbe trasformato il processo in una mobilitazione collettiva e se possibile nazionale. Iniziò così il suo caso, il caso Pierobon. Le indagini sul suo conto andavano avanti dal ’69, quando lei stessa durante un interrogatorio ammise di aver compiuto il reato.

caso Pierobon proteste

L’intenzione del movimento femminista italiano era quello di replicare quanto accaduto mesi prima in Francia. Oltralpe un caso pressoché identico a quello dell’operaia veneta aveva prima generato un acceso dibattito pubblico, e subito dopo condotto alla promulgazione della legge Veil sull’interruzione di gravidanza. I francesi avevano tracciato un solco; spettava al popolo italiano seguirlo o meno.

Il processo non fu come tutti gli altri sino ad allora affrontati nel Bel Paese. Per la prima volta nella storia repubblicana, si tentò di sfruttare un caso personale per evidenziare le storture di una legge di per sé arretrata e scadente. Gli avvocati della difesa si avvalsero di testimonianze illustri. Oltre 30 testimoni fra politici, scienziati, medici, psicologi e psichiatri (tra cui Franco Basaglia), giornalisti e accademici si assestarono sulle posizioni dell’imputata. Gli sforzi sembrarono non fruttare dal punto di vista giudiziario. Diverso fu il riscontro mediatico.

Mentre si tenevano le udienze sul caso Pierobon, le piazze d’Italia brulicarono di manifestanti. La fotografia di Sandra Busatta ad immortalare la protesta femminista in Piazza Insurrezione a Padova è l’emblema di quanto accadeva in tutto il Paese. Due giorni dopo lo scatto, il tribunale di Padova emanò una sentenza alquanto paradossale, da molti definita (giustamente, n.d.r.) paternalistica: un anno di carcere, ma con perdono giudiziale. Come mai? Beh, perché Gigliola Pierobon nei mesi successivi all’aborto si era sposata ed aveva avuto una figlia. Per la legge italiana quella era una forma di redenzione…

caso Pierobon referendum abrogativo 1981

Al di là delle dichiarazioni immediatamente prossime al caso, questo fu di vitale importanza per la nostra società per molteplici motivi. Ne segnalo due su tutti: la vicenda intaccò finalmente il velo d’omertà esistente da decenni sull’aborto clandestino; in secondo luogo diede ampio risalto alle battaglie del movimento femminista. A distanza di cinque anni dalla sentenza, nel 1978 arriverà la tanto attesa “legge 194 sulla tutela della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza“. Neppure il referendum abrogativo del 1981 scalfirà il sacro e inviolabile diritto di tutte le donne ad abortire.