Fotografia di Claudio Herdener, Patagonia, Argentina, 1993. Un uccello senza vita galleggia su una pozza di petrolio in Patagonia, lembo meridionale dell’Argentina. Questa fotografia di Claudio Herdener, premiata nel concorso World Press Photo del 1994, è una delle immagini più potenti e sconvolgenti sul tema dell’inquinamento ambientale, specificamente in merito agli effetti letali dell’estrazione petrolifera in Patagonia. Lo scatto non lascia chissà quanto margine alle interpretazioni, essendo volutamente “crudo” nella sua schiettezza: ritrae un uccello completamente ricoperto di petrolio, morto dopo aver confuso una pozza di idrocarburi con acqua. Il corpo galleggia inerte sulla superficie, intrappolato in un paesaggio innaturale e tossico.

L’obiettivo di Claudio Herdener era quello di dare forma, in quel 1993, ad un reportage di denuncia visiva. Ce la fece, eccome se ce la fece, documentando un fenomeno micidiale, a lungo ignorato da ampie fette della società globale. Perché quello della Patagonia fu un disastro reiterato e silenzioso.
A partire dagli anni ’70, e in misura crescente negli anni ’80 e ’90, vaste aree della Patagonia argentina, soprattutto nella provincia di Neuquén, ad ovest del Paese, sono diventate centri nevralgici per l’estrazione petrolifera. Le compagnie operavano frequentemente senza adeguati controlli e le pozze di scarico di petrolio (chiamate in gergo locale “pooles” o “piletas”) – spesso scavate direttamente nel suolo – non erano né protette né tantomeno coperte. Dei veri e propri laghetti tossici all’aria aperta, fonti artificiali di morte gratuita.
Suddette vasche contenevano un po’ di tutto: materiali di scarto, fanghi oleosi, petrolio grezzo, acque di lavaggio utilizzate per i serbatoi, residui di perforazione, ecc. Gli uccelli acquatici, attratti dal riflesso della superficie scura, vi si posavano convinti che fosse acqua. Una volta immersi, il petrolio aderiva al piumaggio, impedendo loro di volare, galleggiare e regolare la temperatura corporea. L’agonia poteva durare giorni interi, e infine sopraggiungeva la morte. I loro corpi, impregnati di idrocarburi, galleggiavano a lungo, spesso mummificandosi sul posto.

Secondo alcune stime ambientali degli anni ’90, fino a 80.000 uccelli morivano ogni anno in Patagonia a causa di queste pozze non protette. Cifra riportata da diverse ONG ambientaliste, tra cui Greenpeace Argentina e l’Asociación Ambiente Sur.
Per fermare, almeno in parte, lo stillicidio, il governo di Buenos Aires intervenne nel 1992 con una legge ad hoc, volta ad impedire la creazione di nuove pozze tossiche. Fu certamente qualcosa, ma non fu abbastanza. La legge poteva dirsi tutto fuorché impossibile da aggirare. Ricorrendo a facile deroghe, le compagnie petrolifere poterono mantenere in uso le vasche incriminate ancora per diversi anni. Una vera e propria serrata si ebbe solo a partire dai primi anni ‘2000, anche e soprattutto per una pressione delle organizzazioni per la tutela e la salvaguardia ambientale in Patagonia.

Andando oltre la panoramica storica, oltremodo necessaria, s’intende, bisogna soffermarsi sull’entità artistica dello scatto di Herdener. La forza della fotografia sta nella sua composizione. Il colore spento e opaco della superficie trasmette una sensazione di morte e desolazione. Il volatile, con le ali chiuse, è contraddistinto da una praticamente scultorea, come se fosse mummificato dalla stessa sostanza che ha posto fine alla sua vita. Impattante poi è la totale assenza di elementi naturali; mancanza che suggerisce l’annientamento dell’ambiente stesso (e di conseguenza la “sconfitta” dell’umanità, n.d.r.).