Fotografia di anonimo, Congo belga, 20 marzo 1931. Attilio Gatti e due accompagnatori pigmei posano accanto ad un gorilla catturato nella giungla. L’immagine suscita nell’animo di chi osserva emozioni diverse, quasi certamente in contrasto fra loro. Innegabilmente si percepisce il simbolismo storico della foto, che rimanda agli anni del colonialismo cosiddetto scientifico – anche se di scientifico nella stragrande maggioranza di casi non c’era un bel niente – e che lascia trasparire una sorta di eurocentrismo ottuso, tipico di chi si addentrava nella meravigliosa e selvaggia natura centrafricana.

Attilio Gatti potrebbe rientrare in questa categoria, e tuttavia uscirne per altre mille cose che ha fatto e che ha contribuito a fare. Non sta allo storico giudicare, ma neppure si può rimanere impassibili di fronte alla sofferenza di esseri viventi rei di essere incappati nell’uomo bianco sbagliato. Queste erano le “sfighe” che gli autoctoni – umani e non – del Continente Nero dovettero sopportare a lungo, con devastanti ricadute sul lungo periodo come la storia del colonialismo ci insegna.
Tornando a noi, cosa ci dice questa fotografia? Chi ebbe il l’onore e l’onere di stare vicino al primate-trofeo? Lo scenario è quello del Congo belga, un tempo giardino privato di re Leopoldo II del Belgio. Sorridente a sinistra troviamo Attilio Gatti (1896-1969), italiano che in vita è stato molte cose, ma che gli annali ricordano principalmente come esploratore, documentarista e scrittore.

In quel marzo del 1931, Gatti conduceva la sua quinta spedizione africana, avente come obiettivo l’esplorazione della foresta equatoriale al cuore del continente. Attilio Gatti si era già costruito una certa nomea fra gli addetti al settore, viste le sue precedenti spedizioni. Iniziò nel 1922 e terminò 18 anni dopo, nel 1940. In tutto furono 13 missioni, grazie alle quali raccolse dell’inestimabile materiale documentario, fotografico, dalla valenza sia scientifica-naturalistica che antropologica.
L’esploratore vanta diversi record, se così li vogliamo chiamare. Fu uno degli ultimi europei a catturare esemplari di okapi e di bongo. Navigò i Grandi Laghi a bordo di uno “Jungle Yacht” da 9 tonnellate, a tutti gli effetti una vettura anfibia. Fu autore di numerosi libri, reportage e documentari cinematografici etnografici. Interessato alla fauna africana, in particolare ai grandi primati, ma anche alle culture indigene e ai paesaggi equatoriali.

Un gorilla, come si può ben evincere dagli scatti, finì per catturarlo nel 1931, proprio come fecero prima di lui altri europei nelle stesse giungle. Bisogna aggiungere come spesso fotografie del genere scaturissero da specifiche richieste provenienti da enti istituzionali o da case cinematografiche associate. Gatti e molti altri firmarono per delle collaborazioni con queste società/istituzioni, in modo tale da ottenere fondi per la ricerca e l’esplorazione in cambio di materiale documentario, comunque zoologico e antropologico.

È quantomai necessario andare oltre questi ragionamenti, che a mio modesto parere fungono da contorno, quasi da riempitivo, se accostati a ciò che davvero conta della fotografia, ovvero il dolore di alcuni per la soddisfazione di altri, che fosse a scopo scientifico o per semplice diletto personale, poco importa. Che si rifletta su questo inestricabile rapporto critico tra scienza, violenza e dominio coloniale. Lo si faceva all’epoca, conviene farlo ancora oggi.