C’è un fenomeno, tipicamente medievale, che è quello degli animali fantastici nei racconti dei viaggiatori del tempo – ho preso ad esempio Marco Polo, ma come lui tantissimi altri, eh. È un tema davvero affascinante, che si colloca in un ipotetico spazio comune tra etnografia, immaginario collettivo, letteratura di viaggio e mentalità di un tempo (un tempo in cui la creatività contava davvero qualcosa…). Per comprendere pienamente questo aspetto, secondo me è necessario partire da una riflessione più ampia sul ruolo della conoscenza geografica e antropologica nel Medioevo. Ciò senza togliere spazio all’influenza che le tradizioni orali, gli onnipresenti miti antichi e l’esperienza diretta ebbero nella costruzione di un duraturo immaginario “esotico” dell’altrove.

Se di “animali fantastici” (sicuramente J. K. Rowling mi perdonerà per il prestito) vogliamo parlare, seppur su un piano di discussione generale, allora è obbligatorio fare un passo indietro e chiedersi: quale era la funzione del meraviglioso nella letteratura dell’evo di mezzo? Mettiamola così, l’idea di “verità” era diversa da quella moderna. I confini tra ciò che era reale, probabile o simbolico erano nettamente più sfumati rispetto ad adesso. Il meraviglioso, ossia ciò che stupisce, che va oltre l’esperienza quotidiana, non era solo accettato, ma spesso ricercato nei racconti di viaggio, poiché ritenuto segno della vastità e varietà del Creato.
Ho citato poco più sopra fattori quali l’esperienza diretta, l’intento di ammaliare, le tradizioni orali tramandate da terzi (mercanti, viandanti, interpreti, ecc.). Beh, chi ha avuto il privilegio di approfondire le tematiche trattate dal Livre des merveilles (“Libro delle meraviglie”) allora si ritroverà in questi elementi. Delle 265 miniature che compongono il succitato testo, Marco Polo ne realizzò qualcuna per descrivere l’Oriente, l’altrove appunto. Il viaggiatore veneziano scrisse di scene, luoghi e persone verosimilmente irreali.

Ad esempio, è ben noto l’esempio delle isole sperse nell’Oceano Indiano nelle quali vivono umani con la testa di cane. Lui non li ha mai visti questi esseri, ma riporta ciò che gli viene detto. Sia chiaro un punto: Marco non vuole mentire a nessuno, non intende creare sensazionalismo fine a se stesso.
Quando parla dei presunti cinocefali delle Andamane (perché poi si è capito come il racconto facesse riferimento alle Andamane), egli non sta dando i numeri, ma trae spunto da leggende e racconti mitici. Leggende e racconti già presenti in testi antichi. A loro volta forse derivati da un fraintendimento di pratiche culturali come l’uso di maschere rituali o l’aspetto fisico di alcune popolazioni viste come “altre” per tratti fisiognomici o comportamenti alimentari. Vedasi il cannibalismo, spesso attribuito a questi popoli.

Altro esempio che tuttavia non riguarda degli animali fantastici è quello delle mirabolanti rocce magnetiche. L’esploratore racconta di questi minerali in grado di esercitare un’attrazione magnetica spaventosa e quindi di strappare i chiodi dalle navi di passaggio. Delle semplici calamite naturali, verrebbe da pensare. Tuttavia, nel contesto del racconto, il narratore le carica di un potere sovrannaturale, con un effetto potenzialmente devastante sulle navi. Non si tratta di una falsità deliberata, ma della tendenza a “drammatizzare” un fenomeno reale per rendere la vicenda più memorabile e suggestiva.
Volete altre dimostrazioni? Eccovi serviti! Un anonimo autore medievale che trae spunto dagli scritti di Erodoto racconta di formiche africane giganti capaci di scavare nel terreno e tirar fuori l’oro. Delle formiche detector insomma. Stupidaggini a parte, è verosimile che questo mito derivi da un errore di traduzione o traslitterazione. La parola usata per “formica” poteva somigliare a “fennec”, termine con cui ci si riferisce alla Vulpes Zerda, una volpe del deserto che scava tane nella sabbia.