Nel lungo arco di tempo che va dall’epoca medievale alla piena età moderna, il castello giapponese si trasformò profondamente. La sua fu una specie di evoluzione conservativa: perché oltre che continuare ad essere un baluardo militare, assunse altresì delle importanti funzioni simboliche, aventi a che fare con il prestigio e con la ricerca di una specifica legittimità politica. La storia di queste fortezze è inscindibilmente legata ai mutamenti del potere nell’arcipelago. Si parla di ampi archi cronologici contraddistinti, ad esempio, dalle lotte interminabili del periodo Sengoku o dall’ordine gerarchizzato instaurato dallo shogunato Tokugawa. Ricostruirne lo sviluppo significa, ovviamente, raccontare come i daimyō pensarono lo spazio, la difesa, l’architettura e persino l’estetica del dominio.

Tra XV e XVI secolo, in pieno periodo Sengoku – o se preferite, periodo degli Stati combattenti (1467-1603) – il territorio giapponese era frammentato in un mosaico di domini rivali. Lo shogunato Ashikaga (di cui si è scritto in precedenti analisi) esisteva più per convenzione che per reale autorità, e i daimyō combattevano per territori, risorse, prestigio dinastico. In questo contesto l’architettura militare assunse un’importanza senza precedenti.
I castelli più antichi sorsero sui rilievi montuosi. Presero il nome di yamajiro, fortezze che sfruttavano in modo magistrale la topografia irregolare del Giappone. La quota elevata garantiva un controllo visivo eccezionale, un vantaggio tattico fondamentale, lo comprendiamo facilmente, soprattutto in un’epoca in cui la sorpresa era spesso decisiva. Eppure c’è il rovescio della medaglia. Se è vero che l’altura offriva sicurezza, rappresentava al contempo un impedimento. Per chi? Beh, per lo stesso signore, il quale non poteva dirsi pienamente in controllo – diretto e quotidiano – dei villaggi sottostanti. Detto in modo banale, raggiungere la fortezza era faticoso, così come lo era organizzare movimenti rapidi di truppe.

Con l’unificazione iniziata da Oda Nobunaga, proseguita da Toyotomi Hideyoshi e consolidata da Tokugawa Ieyasu, l’esigenza strettamente militare diminuì. Nacquero così gli hirajiro. Li possiamo definire dei “castelli di pianura”, spesso circondati da città-fortezza pianificate. Suddette strutture non servivano solo a difendere, ma erano l’emblema del potere. Ospitavano burocrazie complesse, assolvendo a compiti amministrativi e, perché no, culturali.
In mezzo ai due modelli si collocavano gli hirayamajiro, che combinavano l’autorità visiva della posizione elevata con la praticità gestionale della pianura. Infine, nelle regioni costiere e fluviali comparvero i mizujiro, castelli d’acqua, che utilizzavano porti, fiumi e lagune come estensioni naturali delle loro difese.
Volete che vi dica un’ovvietà? Bene, il Giappone è un paese ad altissimo rischio sismico, boscoso e relativamente povero di risorse minerarie. Vale oggi, come valeva ieri. E i suoi castelli rispecchiano queste condizioni geo-ambientali. Il legno risultò essere dunque la risorsa dominante, anche perché leggero, flessibile e facile da sostituire. Allora il cipresso giapponese, il pino rosso e il cedro costituirono la struttura portante degli edifici, mentre si pensò a fortificare le fondamenta con grandi accumuli di pietrame, i cosiddetti ishigaki, disposti a secco senza malta per assorbire meglio le vibrazioni dei terremoti. Plurisecolare spirito d’adattamento nipponico, verrebbe da dire.

Le pareti inclinate degli ishigaki, con la caratteristica forma “a ventaglio” (ogivali alla base e più strette in alto), sono tuttora uno degli elementi architettonici più riconoscibili di un castello giapponese. Esse proteggevano la collina stessa dall’erosione e rendevano difficili le scalate degli assalitori.
Sul tetto, tegole di ceramica o scandole di corteccia di cipresso venivano montate con un’attenzione quasi maniacale, dovendo pensare all’importantissimo deflusso dell’acqua. Le ampie gronde curve servivano non solo ad allontanare la pioggia dal legno, ma anche a modulare la luce negli interni. Vi ricorda qualcosa questo equilibrio tipicamente giapponese tra estetica e utilità? No? Vi fornisco un piccolo indizio: Kintsugi.
Tornando a noi, non mancavano elementi votivi o ornamentali, come gli shachi, ossia creature mitiche poste alle estremità del tetto del mastio. Potevano essere sculture in oro (o legno dorato, che dir si voglia) che si riteneva proteggessero dalla furia del fuoco e delle tempeste. Il mastio centrale, era visibile da lontano e dominava l’intero complesso. Attenzione però, perché a differenza di quanto accadeva spesso e volentieri in Europa, questo non fungeva da residenza quotidiana del signore. Era più un ultimo rifugio in caso di assedio. Le architetture del mastio spesso ingannavano l’occhio, dato che erano ricchissimi di piani nascosti, così come di finestre false e facciate asimmetriche progettate per disorientare eventuali infiltrati.

Altro elemento che va inquadrato era la yagura, le torri di guardia disposte agli angoli delle mura. Queste avevano funzioni multiple e non proprio scontatissime. Perché sì, oltre ad essere postazioni d’avvistamento, fungevano anche da deposito di armi e punto di osservazione astronomica.
Nel tipico castello giapponese era di fondamentale centralità la disposizione dei cortili, la quale seguiva una logica difensiva a cerchi concentrici. Chi cercava di raggiungere il mastio si trovava costretto a percorrere un labirinto di corridoi, ponti rialzati, curve a gomito e strettoie che impedivano manovre rapide e rendevano inefficaci le cariche di cavalleria.
All’interno, l’architettura mostrava un’altra faccia della raffinatezza giapponese. I fusuma e gli shoji, entrambi divisori scorrevoli tradizionali – variabili nel nome a seconda dell’opacità – permettevano di riconfigurare rapidamente gli spazi, favorendo versatilità d’uso e controllo della luce. E poi non potevano mancare meccanismi difensivi nascosti all’interno. Avete mai sentito parlare dei celeberrimi pavimenti dell’usignolo? Praticamente “cantavano” al minimo passo, dato che le travi sottostanti erano munite di chiodi o spuntoni; un ostacolo sonoro per impavidi intrusi.

Io vi sento, desiderate esempi concreti. Ecco, se andate in Giappone, alcuni castelli che assolutamente non potete perdere sono i seguenti:
- Castello di Osaka. Sorto nel 1597 e legato indissolubilmente alla figura di Toyotomi Hideyoshi, Osaka-jō è stato teatro dell’assedio che pose fine al clan Toyotomi e consacrò il potere Tokugawa. Ricostruito più volte, conserva oggi l’impianto e il ruolo simbolico di una delle fortezze più iconiche del Giappone.
- Castello di Himeji. Conosciuto come il “Castello dell’Airone Bianco”, Himeji è probabilmente la massima espressione dell’architettura castellana giapponese. L’attuale struttura, ampliata a fine XVI secolo, è considerata un capolavoro di integrazione tra estetica, difesa e urbanistica.
- Castello di Matsumoto. Il “Castello del Corvo”, con le sue mura scure e il mastio originale intatto, è uno dei pochi esempi ancora perfettamente conservati di complesso difensivo di pianura. Situato in un territorio un tempo dominato dai Takeda, testimonia le tensioni militari dell’area centrale dell’Honshū.
- Castello Nijō. Diverso per funzione e concezione, il Castello Nijo era una residenza di rappresentanza per il clan Tokugawa a Kyoto. Qui il potere era mostrato attraverso la ricchezza artistica, non vi dico altro.
Giunti a conclusione, non resta che specificare un aspetto storico sui castelli nipponici. La Restaurazione Meiji (1868) segnò un brusco cambiamento: i castelli furono considerati simboli del vecchio regime feudale. Nel peggiore dei casi, li abbatterono. Se il destino sorrideva loro, gli architetti incaricati dal governo sceglievano di convertirli in uffici, scuole, o caserme. Solo nel XX secolo si comprese il loro valore storico e artistico, avviando restauri complessi che hanno permesso a strutture come Himeji, Matsumoto e Inuyama di giungere fino a noi pressoché intatte.




