Almanacco del 9 giugno, anno 53 a.C.: infuria la battaglia di Carre, presso l’odierna Harran (Turchia). A contendersi il campo di battaglia sono i legionari della Repubblica Romana, comandati dal triumviro Marco Licinio Crasso, e i Parti, guidati dall’Eran Spahbod (l’equivalente del supremo generale) Surena. Gli eventi del 9 giugno 53 a.C. furono sinonimo di disastro senza precedenti per la storia militare di Roma. Cerchiamo di capire assieme perché, senza tralasciare contesto e conseguenze della battaglia.

Partiamo dal primo, l’immancabile quadro generale. Facciamo qualche passo indietro e torniamo brevemente al 60 a.C. Quello è l’anno dell’accordo ufficioso fra Cesare, Pompeo e Crasso. I tre uomini più influenti di Roma stipularono un patto di collaborazione e supporto reciproco poi passato alla storia come “primo triumvirato“: né più né meno di un’alleanza politica non ufficiale. Ognuno dei tre aveva interessi personali da perseguire. Cesare cercava gloria in Gallia, Pompeo prestigio e stabilità interna, Crasso (l’uomo più ricco di Roma) desiderava elevarsi al pari dei colleghi.
Nel 55 a.C., dopo il rinnovo del triumvirato a Lucca, Crasso ottenne il proconsolato della Siria, una provincia di frontiera ricca e strategica, con l’obiettivo di intraprendere una campagna militare contro l’Impero dei Parti, incontrastati signori dell’Oriente, i cui territori comprendevano l’attuale Iran e parte della Mesopotamia.
Dunque Crasso bramò la guerra per una mera questione di prestigio personale e non, come si potrebbe credere, per stringenti motivi politico-strategici. Serviva chiaramente un casus belli e i Romani lo trovarono nelle lotte dinastiche interne all’Impero partico. Accadde che Crasso, dovendo scegliere la pedina da supportare nello scacchiere del potere partico, optò per quella perdente: Mitridate. Costui non riuscì a scalzare il nuovo sovrano Orode e, in pieno spirito di rivalsa, chiese l’intervento armato romano. Tutto secondo i piani, almeno per Crasso.

Il generale romano non ne azzeccò una. In primis rifiutò le dritte del sovrano d’Armenia Artavaside II che gli consigliava di penetrare nel regno partico passando da nord e di sfruttare le alture caucasiche. Crasso invece preferì attraversare direttamente la Mesopotamia, scegliendo un itinerario più rapido, è vero, ma rischioso, attraverso il deserto. Il suo esercito contava circa 40.000 uomini, tra cui sette legioni, cavalleria e truppe ausiliarie. Crasso ignorò le condizioni ambientali e la logistica, oltre che le reali capacità del nemico. Il pasticcio era all’orizzonte e presto se ne sarebbe accorto.
Già la marcia verso est fu ricca di disavventure per il grande esercito repubblicano. Senza mai cercare lo scontro in campo aperto, i veloci arcieri a cavallo partici decimarono le fila dei legionari, nella più classica delle tattiche “mordi e fuggi”. Invece di dissuadere Crasso, questa tattica lo convinse della codardia del nemico, il quale andava dunque punito in modo esemplare. Punizione che sarebbe stata inferta presso l’odierna Harran, Turchia sud-orientale, a quel tempo Carrhae. Era il 9 giugno del 53 a.C. Una data che Roma ricorderà a lungo.
Alla battaglia di Carre, il comandante Surena si presentò a capo di soli 10.000 uomini. Non fatevi ingannare dal numero: non solo erano freschi – a differenza dei Romani, sfiancati da giorni e giorni di marcia nel deserto – ma anche ben preparati, oltre che bardati a dovere (vedasi i catafratti). Nonostante l’inferiorità numerica, Surena aveva due vantaggi cruciali: la mobilità, con la cavalleria partica in grado di colpire e ritirarsi rapidamente; la tattica degli arcieri a cavallo, maestri del cosiddetto “tiro partico”.

Crasso schierò le sue legioni nella classica formazione quadrata. Così facendo, cercò di proteggere i fianchi dai continui attacchi della cavalleria. Ma questa disposizione rese i soldati vulnerabili: erano immobili sotto il sole cocente, costretti a subire le frecce senza possibilità di risposta. I Parti usarono archi compositi e carovane di cammelli carichi di frecce, che rifornivano costantemente gli arcieri. Ogni tentativo romano di caricare la cavalleria fu vano. Presto la cavalleria romana, inferiore in qualità e numero, andò incontro all’annientamento.
Alla disfatta seguì la ritirata. Un contingente di 10.000 uomini, al seguito del generale Cassio, si salvò. Quelli che invece seguirono Crasso, diretto verso Orfa, fecero una fine più decisamente più amara. Ritirandosi il triumviro trovò la morte; come non è ben chiaro. Plutarco dice a seguito di una colluttazione. Altre fonti sostengono la tesi dell’assassino. Leggenda vuole che Surena, volendo punire la bramosia del facoltoso nemico romano, abbia ordinato ai suoi di colare nella bocca di Crasso dell’oro fuso.

Le conseguenze immediate (e non) della battaglia di Carre furono solari: in seno alla Repubblica si spezzò il triangolo del triumvirato. Con l’uscita dai giochi di Crasso, rimasero padroni della scena romana i soli Cesare e Pompeo. Sappiamo tutti che non andò a finire benissimo fra i due. Lo shock fu palese anche a livello militare e tattico. Per la prima volta Roma si era confrontata con un nemico dotato di una cavalleria nettamente superiore, perciò dovette rivedere la propria dottrina in materia.
Invece per i Parti cosa rappresentò Carre? Inizialmente un valido motivo per proseguire verso Occidente. L’avanzata fu bloccata però da Cassio e Cicerone ad Antiochia. Ci fu anche una seconda sortita, ancora una volta ostacolata da Gaio Cassio Longino ad Antigonia. La gloria seguita alla vittoria di Carre del 9 giugno del 53 a.C. non fece propriamente bene a Surena, il quale cadde in disgrazia presso la corte partica e per questo finì giustiziato.