Quando storia, folklore e mistero finiscono per conciliarsi, nascondo vicende come quella che di qui a poco vi esplicherò. Secondo una vecchia leggenda cinese, un uomo avrebbe vissuto la bellezza di 256 anni, dal 1677 al 1932. Sarebbe un insulto alla vostra intelligenza sottolineare si tratti di una menzogna, ma quello che al sottoscritto – o a chi prima di me – preme dire, riguarda il meccanismo socio-culturale che ha elevato la modesta vita di un uomo qualunque a leggendaria esistenza, dal corso plurisecolare, di un geronte (parola da intendere nel suo senso arcaico e originale).

Ve lo presento dunque: quello che vedete in foto si chiama Li Ching-yun. O meglio, si chiamava. La sua biografia sfuma nel mito, ma è curioso sapere perché. La storia esplode sulla scena internazionale il 6 maggio 1933, quando il New York Times pubblica un necrologio che attribuisce all’uomo un’età improbabile: 197 anni. Impossibile, per chiunque, bisogna ricalcolare. Effettivamente viene eseguita una seconda valutazione… peccato sia al rialzo: l’uomo sarebbe morto a 256 anni.
L’eco della notizia è enorme. La rivista americana Time la riprende, studiosi e curiosi si interrogano sull’esistenza di un essere umano vissuto quattro volte più della media. Mentre il nome di Li diventa immediatamente un simbolo di longevità estrema. Il punto cruciale è che nessuno conosce la data esatta della sua nascita.
Le testimonianze coeve sono fragili, spesso contraddittorie, e si basano quasi sempre su dichiarazioni orali difficili da verificare. Abitanti del Sichuan, provincia natale del soggetto, sostenevano di ricordarlo “da sempre”. E che perfino i loro nonni lo avevano conosciuto senza che l’uomo sembrasse invecchiare. È proprio questo tipo di racconto (il volto che non muta, la presenza costante nelle memorie familiari) a nutrire un certo tipo di narrativa.

La leggenda prende una forma più definita dopo la morte di Ching-yun. Il professore Wu Chung-chien iniziò a raccogliere documenti e testimonianze. Secondo la sua improbabile ricostruzione, Li sarebbe nato addirittura nel 1677 a Qijiang Xian. Ancora giovane, si sarebbe ritirato sui monti, trascorrendo un secolo intero a studiare erbe, meditazione, respirazione e pratiche taoiste. Di lì a poco, la sua storia assume i contorni dell’archetipo: l’eremita che percorre vallate e foreste, apprendendo dai maestri nascosti e sperimentando i confini tra natura e spirito.
Passati i 70 anni Li si trasferisce nella contea di Kai, dove entra nell’esercito come insegnante di arti marziali e consulente tattico. È un dettaglio singolare, perché inserisce la figura quasi leggendaria in un ambito istituzionale, lasciando intravedere un personaggio stimato, forse carismatico, certamente dotato di una profonda conoscenza del corpo e della disciplina mentale. Secondo la raccolta di Wu Chung-chien, l’imperatore Qing avrebbe persino inviato auguri per il suo 150° compleanno nel 1827 e poi ancora per i 200 anni.

Della sua lunga vita rimane una sola prova iconografica certa. Si tratta di una fotografia scattata nel 1927 dal signore della guerra Yang Sen (collaboratore stretto di Chiang Kai-shek), che lo aveva invitato nella propria residenza affascinato dalla sua fama. Yang Sen rimase tanto colpito dall’incontro che decise di raccogliere gli aneddoti e gli insegnamenti attribuiti a Li in un libro. Il generale contribuì ulteriormente a cementare il mito nell’immaginario collettivo.
Secondo le narrazioni più colorite, Li avrebbe avuto 24 mogli e generato circa 180 discendenti. Ma è proprio qui che la storia si allontana dai dati verificabili. I gerontologi moderni concordano nel ritenere che la leggenda sia frutto di errori d’identificazione, tradizioni orali sovrapposte e, forse, di un certo compiacimento dello stesso Li, che non avrebbe mai negato apertamente le età favolose attribuitegli. Uno studio del 2011, che affronta il caso da un punto di vista antropologico, sottolinea come la vicenda si inserisca perfettamente nella cultura cinese. D’altronde si parla di un maestro di montagna, esperto di erbe, che attraversa i secoli incarnando l’ideale della longevità spirituale e della padronanza del proprio corpo.
La storia di Li Ching-yun, più che un caso biografico da confermare o smentire, appare così come una parabola culturale. Una sorta di mito moderno nato dall’incontro tra la tradizione taoista e il sensazionalismo dei media occidentali, cresciuto attorno a un personaggio probabilmente longevo, forse eccezionale, ma non immortale (o quasi). È la forza del racconto, più che la sua carta d’identità, ad aver reso Li Ching-yun una figura destinata a sopravvivere ben oltre la sua vita terrena.




