Nel 1848 lo scultore David d’Angers realizza un busto in marmo raffigurante Louis Antoine Léon de Saint-Just, personaggio fra i più celebri della Rivoluzione francese. Un’anziana signora, scorgendo l’opera, esclamò: «Era bello, Saint-Just, con il suo volto pensieroso, in cui si percepiva la massima energia, addolcita da un’aria di dolcezza e di candore indefinibile». Riflessivo, energetico e imperturbabile sono aggettivi che ben si sposano con la biografia del nostro rivoluzionario, ammettendo tuttavia la compresenza di altri molto meno lusinghieri. Spietato, calcolatore, testardo, sanguigno, giusto per dirne qualcuno. Ed è per questo suo portamento, al tempo stesso luce e ombra della metafora rivoluzionaria, che a soli 26 anni finì decapitato dalla “democratica” ghigliottina.

Il 25 agosto 1767 nasce in un piccolo centro abitato della Francia centrale, salvo poi crescere a Blérancourt, in Piccardia. Suo padre, un maresciallo della gendarmeria, muore quando il piccolo Louis Antoine di anni ne ha soli dieci. Restano sua madre e le due sorelle. L’educazione ricevuta è delle più ferree e severe; studia in un collegio degli Oratoriani a Soissons dove capisce di amare follemente i classici greci e latini, la storia e la filosofia. Materie umanistiche che assimila anche nei momenti meno opportuni della giornata.
Il giovane Saint-Just si innamora di Thérèse Gelle, la figlia del notaio. Peccato che la di lei famiglia la promette ad un uomo con maggiori disponibilità economiche. Col cuore spezzato e con un rancore bruciante, Saint-Just prende con sé tutta l’argenteria di casa e fugge a Parigi, si dirà “per cambiare aria”. A Blérancourt si rendono conto immediatamente di quanto accaduto: il tempo di sporgere denuncia e il fuggitivo viene arrestato. Seguono sei mesi di correzione a Reims, dove però ha anche modo di completare gli studi in giurisprudenza e dare vita al suo primo sforzo politicamente impegnato.

L’opera prende il titolo di Organt ed è essenzialmente un poemetto satirico e libertino, in cui le critiche più accese cadono sull’istituzione monarchica, sul suo rappresentante in Francia e sulla galassia di adepti – nobiltà e clero – che attorno ad esso ruotano opportunisticamente. Guarda un po’ il caso, il libro diventa pubblicato nel maggio 1789, quando l’ora della sovversione totale è prossima a scattare.
Dice di non apprezzare lo slancio con cui si è assaltata la Bastiglia, ma il giudizio moderato lo abbandona così come l’ha trovato. Tempo qualche settimana e Saint-Just si lega alla neonata Guardia Nazionale, scrivendo accesissime opere di stampo rivoluzionario. Non ha ancora 25 anni quando cerca di entrare nell’Assemblea Nazionale del 1791. L’età minima per ottenere l’incarico è proprio quella e lui vive male il condizionamento anagrafico. Scriverà «Sono schiavo della mia adolescenza!». L’anno dopo, nel 1792, viene eletto deputato alla Convenzione Nazionale.

Ancora una volta la tempistica non è da sottovalutare. L’elezione a deputato cade un mese dopo la destituzione di Luigi XVI di Francia. In tal senso, il 13 novembre del medesimo anno il rivoluzionario piccardo fa il suo discorso d’esordio nell’assemblea. L’obiettivo è stupire, attirare le attenzioni, persino dei più radicali. Si dice fermamente convinto della necessità di giustiziare il re, dato che è il vertice di un’istituzione criminale. È rimasta impressa nelle cronache storiche la sua frase «Quest’uomo deve regnare o morire». Dovranno passare due mesi prima che la lama della ghigliottina gli dia ragione.
Nella prima metà del 1793 si avvicina moltissimo alle istanze di Maximilien de Robespierre, che addirittura scrive di considerare come una divinità. Il primo dei Giacobini ricambia l’apprezzamento, poiché ritiene Saint-Just tanto eloquente quanto rigoroso nel seguire i dogmi della Rivoluzione radicale. Una buona spalla sulla quale appoggiarsi. Saint-Just si dedica anima e corpo alle cause giacobine, trascurando tutto il resto. Neppure il plausibile ricongiungimento con la vecchia fiamma Thérèse Gelle sembra smuoverlo. Egli stesso la metterà da parte, annunciando fieramente come «per un rivoluzionario l’unico riposo è la tomba».

Quando scrivo che tutto il resto passava in secondo piano, non lo affermo così, a caso. In pochissimi mesi entra a far parte del Comitato di Salute Pubblica – organo esecutivo straordinario che permette a Robespierre di decidere il buono e il cattivo tempo – e si cimenta nella stesura congiunta della Costituzione. Se lascia la penna, lo fa solo per la spada. In veste di commissario politico, segue l’esercito francese al confine, dove contribuisce ai successi bellici di Landau e Fleurus.
Ma se Louis Antoine de Saint-Just è passato alla storia come l’Arcangelo del Terrore non è principalmente per questi fatti. Divenendo il braccio destro di Robespierre, concorse attivamente alla strategia giacobina del Terrore nell’esatto momento in cui la Francia rivoluzionaria dovette affrontare a cascata crisi economica, carenze alimentari, guerre esterne contro le spaventate monarchie d’Europa e interne contro lealisti, presunti tali o semplici dissidenti. Volendo azzardare un paragone col futurista Marinetti, per il quale la guerra era la sola igiene del mondo, Saint-Just pensava che la repressione sistematica fosse il solo e unico modo per purificare la società transalpina.

Distingueva due tipi di cittadini: i buoni e i cattivi. I primi, ciecamente fedeli alla linea massimalista giacobina, potevano continuare a godere dei loro diritti. I secondi, anche se solo un minimo discostati dalle proposte dal triumvirato (Robespierre, Saint-Just e Couthon), potevano incappare nella ghigliottina. Un simile ragionamento poteva solamente essere il preludio o la diretta manifestazione retorica di ciò che effettivamente stava accadendo.
Furono di Saint-Just le più vivide accuse rivolte alle “fazioni” opposte alla sua. Non si risparmiò nel denigrare i radicali di Jacques-René Hébert, men che meno i moderati di Danton. Morto quest’ultimo, l’ascesa del Club dei Giacobini sembrò consolidarsi in una stasi tremenda che, tuttavia, non soddisfò il nostro giovane rivoluzionario. A lui il processo sembrava essersi “congelato”, dato che al posto di motivati uomini d’azione vedeva al comando politicanti complottisti. In un certo senso il suo pessimismo ci vide giusto.

Proprio uno di questi intrighi pose fine alla sua parabola e, di conseguenza, a quella del Terrore. Il 27 luglio 1794 un discorso di Saint-Just alla Convenzione venne accolto dalla più eclatante protesta, da ululati e grida che non ne permisero lo svolgimento. Era la Reazione termidoriana, evento che sancì l’arresto di tutti i robespierristi. L’Arcangelo del Terrore non oppose resistenza verbale, si limitò al silenzio e alla calma glaciale. Imperturbabile, come disse la signora di fronte al suo busto marmoreo mezzo secolo dopo, si presentò al cospetto della ghigliottina il 28 luglio 1794. Saltò quella testa, come tante altre prima e dopo la sua.




