Fotografia di anonimo, Cagliari, Italia, 2 dicembre 1991. L’immunologo Fernando Aiuti bacia in pubblico la sua paziente sieropositiva Rosaria Iardino. Il gesto fu simbolico e intese confutare un falso, ma estremamente dannoso, mito: l’HIV non si trasmette per via orale. Ancora oggi, nelle campagne di sensibilizzazione contro lo stigma dell’AIDS, la fotografia del bacio fra Aiuti e Iardino rimane emblematica, impressa nella memoria collettiva italiana e mondiale.

Fernando Aiuti e Rosaria Iardino concordarono la sera prima quel bacio, come un gesto catalizzatore di un’attenzione purtroppo scemante sulla tematica. In quegli anni, infatti, l’AIDS non era solo una malattia: era uno stigma, un macigno socialmente pestifero. Le persone sieropositive andavano incontro all’isolazione, la discriminazione, il rinnego. Contribuiva a questo clima di terrore le millemila fandonie circolanti fra l’opinione pubblica. Falsi miti figli di una mancata conoscenza di base sul virus HIV e sulla sindrome di immunodeficienza acquisita, dicasi AIDS. Poi la narrazione mediatica intrisa di sensazionalismo, oltre che di pregiudizio morale, peggiorava di molto la percezione.
Il professor Aiuti, immunologo di fama internazionale e fondatore dell’Anlaids, la prima associazione italiana per la lotta contro l’AIDS, conosceva tanto bene la scienza quanto la psicologia delle masse. Aveva capito che la ricerca, per quanto fondamentale, da sola non bastava. Bisognava educare, comunicare, smontare il terrore con gesti che parlassero più forte delle parole. E così, a margine di un convegno cagliaritano dedicato al tema, quando una giornalista chiese come si trasmettesse realmente il virus, Aiuti si avvicinò a Rosaria Iardino e la baciò sulla bocca, davanti a tutti.
Con quel bacio Aiuti rispose indirettamente alla domanda. Lo stigma si combatteva con la ragione, non di certo con la paura. Lo scatto fotografico, di cui purtroppo non si conosce l’artefice (o almeno, io non sono riuscito a rintracciarlo), fece immediatamente il giro del mondo.

In un periodo in cui ancora si evitava di stringere la mano a chi aveva contratto l’HIV, quel gesto mostrava in modo semplice e inequivocabile che il virus non si trasmette con il contatto né con la saliva, ma attraverso specifici fluidi corporei: sangue, sperma, secrezioni vaginali, latte materno.
Anche Rosaria Iardino, dal canto suo, non era una comparsa. Aveva una certa storia da raccontare. Giovane attivista, da anni impegnata nella lotta per i diritti delle persone sieropositive, accettò il gesto con consapevolezza e determinazione. In seguito avrebbe raccontato di non aver provato timore, ma enorme gratitudine.
Il contesto in cui tutto ciò avvenne era quello di un mondo che da dieci anni conviveva con la pandemia più devastante della seconda metà del Novecento. Dal 1981, quando i Centers for Disease Control and Prevention americani avevano segnalato i primi inspiegabili casi di polmonite tra giovani omosessuali, l’HIV aveva già ucciso milioni di persone. La scoperta del virus, avvenuta nel 1984 grazie a Robert Gallo e Luc Montagnier, non aveva però fermato l’onda di panico.
La malattia era divenuta sinonimo di vergogna, emarginazione e colpa, e la società reagiva più con il rifiuto che con la compassione. In Italia, l’AIDS veniva spesso trattato come una “piaga morale”, associata a tossicodipendenza e omosessualità, e i malati vivevano nell’ombra. Per questo il bacio di Cagliari ebbe una forza rivoluzionaria.

Al di là delle critiche (poche e strumentali) che pure ci furono, la storia ha dato ragione a quel simbolico gesto. A distanza di oltre trent’anni, la fotografia è ancora considerata una delle campagne di sensibilizzazione più efficaci mai realizzate. Ogni 1º dicembre, Giornata Mondiale contro l’AIDS, l’immagine del bacio tra Aiuti e Iardino riemerge come monito e come simbolo di coraggio. In un mondo dove ancora oggi oltre 37 milioni di persone convivono con l’HIV, e dove lo stigma sociale continua in molte aree a essere più pesante della malattia stessa, quel bacio resta una lezione di civiltà.
Chiudo con le parole della diretta interessata, la Iardino, che durante un’intervista nel 2019 disse: «È servito tantissimo. Non immaginavamo che avrebbe fatto tanto scalpore e quanto quella foto riuscisse a girare nel mondo. Lo avevamo fatto pensando all’Italia, ma arrivarono giornali anche dal Giappone. Il nostro messaggio era rivolto alle persone l’HIV perché allora lo stigma uccideva molto più dell’infezione. La gente moriva prima di morire».




