Fotografia di Andrew McAuley, Mar di Tasman, 8-9 febbraio 2007. L’autoritratto fotografico di Andrew McAuley è storia recente; è la storia di un’avventura e di un avventuriero, di chi non ha mai anteposto il timore di non farcela all’entusiasmo dell’impresa, di chi ha sfidato il Mar di Tasman, turbolento braccio marino del Pacifico sud-occidentale, a bordo di un kayak standard color giallo arancio. Lo scatto in sovrimpressione è l’ultimo a ritrarre Andrew ancora in vita.

Si parta da quest’ultimo. Lo sguardo di Andrew McAuley, incorniciato dall’arancione acceso della sua cerata, con il viso segnato dalla crema protettiva e dalle gocce salate, è un fermo immagine che sembra avere la forza di un epitaffio. Dietro di lui il Pacifico si gonfia e smentisce il nome che porta da tempi immemori. È uno scatto che racchiude il senso di tutta la sua vita: un uomo che si mette davanti all’immensità, che non arretra ma sceglie di guardarla negli occhi, anche se per un’ultima, fatale, volta.
La storia che si cela dietro l’immagine è il racconto di una passione trasformata in destino. Andrew non era soltanto un alpinista e un canoista, era un esploratore di confini, uno di quegli uomini che sembrano nati con il bisogno di andare oltre. Le montagne della Patagonia, le vette del Pakistan, i fiordi cileni, i mari tempestosi tra Tasmania e Australia: ogni sua impresa raccontava una tensione continua verso il limite. Non cercava la gloria, né il primato per il primato. Ciò che lo muoveva era quella che lui stesso definì “la grande soddisfazione nell’ideare un’avventura improbabile e inverosimile”. Era il gusto di sfidare l’impossibile, ma sempre con la lucidità di chi sapeva che l’impossibile va trattato con rispetto.

Quando decise di affrontare il Pacifico, da solo, in kayak, non lo fece alla leggera. Disegnò il suo mezzo, lo personalizzò, pensò a ogni dettaglio. Non era incoscienza, ma metodo, disciplina, preparazione. Eppure, per quanto si prepari, l’oceano resta imprevedibile, anche se qualcuno ha deciso di chiamarlo Pacifico. Andrew lo sapeva bene. Nel dicembre 2006 aveva già tentato la traversata, ma dopo due giorni di gelo aveva rinunciato. Non lo considerava un fallimento, ma un calcolo, la capacità di riconoscere quando il rischio supera la soglia.

Eppure, nel gennaio 2007, riparte. Miglio dopo miglio, affronta tempeste, resiste a mareggiate, sopporta la solitudine assoluta. È un’avventura che si consuma tra silenzi infiniti e urla del vento. E quando finalmente la meta sembra vicina – mancano solo 80 chilometri alla costa neozelandese – Andrew scrive un messaggio alla moglie: “Ci vediamo domenica alle 9,00!”. Parole di fiducia, di quelle che infondono la certezza di chi si sente ormai arrivato. La sua famiglia lo attende, perfino il figlioletto, troppo piccolo per ricordare, ma abbastanza grande per aspettare un ritorno che non ci sarà.

Il dramma esplode poche ore dopo. La chiamata disperata alla Guardia Costiera, il kayak che affonda, la voce disturbata che annuncia l’emergenza. Poi, il silenzio. Quando il mezzo viene recuperato, mancano la copertura, il radiofaro, il telefono satellitare. Per il resto c’è tutto… tutto tranne Andrew. L’onda gonfia che nella fotografia sembra solo anticipare la tragedia, alla fine si manifesta e trascina negli abissi l’australiano.
L’avventura di McAuley non si spegne con la sua scomparsa: vive nel mito di tutti coloro che non si accontentano dell’ordinaria tranquillità. Quel kayak personalizzato è oggi conservato all’Australian National Maritime Museum, come reliquia di un sogno interrotto.