Quante volte, nell’arco della vostra vita, avete sentito parlare di “guerra giusta“? Due termini spesso e volentieri adottati da una strumentale e specifica retorica bellicista per giustificare l’innescarsi di un conflitto o, nei casi in cui le armi sono state deposte, legittimare l’imposizione di un nuovo potere. Ebbene, nel mondo di oggi parlare di guerra giusta comporta una bella somma di rischi, ma anche dei vantaggi (propagandistici) non indifferenti. Sia chiaro, non è un’invenzione della contemporaneità. Come sempre accade, i Romani ci hanno preceduto in questo. Anche nella loro cultura, nel loro modo di intendere i rapporti fra comunità, era insinuata la logica della guerra giusta; del bellum iustum per darci un tono accademico. Siamo qui oggi per comprendere quella logica e tutte le formalità che attorno ad essa ruotarono nell’intero arco della storia romana.

Magari per noi è un po’ complicato capirlo, ma dobbiamo sforzarci: per i popoli antichi guerra e sacralità erano inscindibili. Due campi semantici complementari, e anzi, propedeutici l’uno per l’altro. Ciò è particolarmente vero per Roma, ma anche – stando a quello che gli stessi storici romani tramandano – per quelli che un tempo erano i liberi popoli italici. Semplificando all’osso, per gli antichi fare la guerra significava spezzare un equilibrio relazionale fra popoli. Se ciò fosse avvenuto senza le dovute precauzioni rituali, beh, gli dèi se la sarebbero potuta prendere. Meglio non farli incavolare…
Un discorso del genere non può prescindere dal collegio sacerdotale romano preposto alla dichiarazione di guerra: i fetiales. Chi erano e in che modo agivano? Tito Livio viene in nostro soccorso e offre la sua versione dei fatti. L’illustre storico di Patavium (Padova per gli amici) associa la nascita del collegio dei fetiales – il quale, a scanso di equivoci, si curava di coltivare i rapporti con i popoli stranieri – all’età regia. Tito Livio attribuisce la creazione del collegio ad Anco Marzio, quarto re di Roma, con lo scopo di regolare e rendere sacra la dichiarazione di guerra. Bellum iustum non a caso.

Non tutti gli autori di una storia di Roma sono concordi con Tito Livio. Ad esempio Plutarco e Dionigi di Alicarnasso spostano l’origine ancora più indietro, sotto Numa Pompilio, dando al secondo re di Roma il merito di aver fissato sia i rituali di pace che quelli di guerra.
Al di là della collocazione cronologica, è certo che questa istituzione sacerdotale nasca in seno alla monarchia. Venne alla luce per sopperire ad una duplice necessità: quella di scongiurare guerre ingiuste, perché malviste dagli dèi e, di conseguenza, quella di rendere le guerre sacre e legittime agli occhi degli dèi, affinché Roma non incorresse nella colpa di combattere un conflitto empio.
Il procedimento era codificato. Il pater patratus, portavoce del collegio, dopo un viaggio nel territorio nemico, avanzava richieste precise e dava un termine di 33 giorni per la riparazione del torto. Se la controparte non cedeva, il rito culminava con un gesto dal valore simbolico determinante. Il sacerdote avrebbe scagliato una lancia (hasta ferrata) nel territorio nemico, accompagnata da una formula giuridico-sacrale che “apriva” formalmente la guerra. In età arcaica, ciò avveniva al vero confine fisico tra Roma e il popolo avversario. E quest’ultimo è un punto sul quale mi piacerebbe focalizzare la vostra attenzione.

Tutto molto bello eh. Il sacerdote che ha l’onere di scagliare la lancia davanti le mura di Veio, o che ne so, di Cures, capitale dei Sabini… Ma quando Roma cessa di essere una forza regionale, elevandosi a potenza mediterranea, il pater patratus mica può andare davanti Cartagine e scagliare la sua lancia? Come la risolvono i Romani una simile bega burocratica? L’inventiva non è mai mancata loro, anche questa vicenda lo dimostra…
Per risolvere il problema, i Romani introdussero una finzione rituale. Allestirono un appezzamento di terra presso il tempio di Bellona, situato fuori dal pomerium (lo spazio sacro entro cui era vietato portare le armi). Gli appositi funzionari religiosi consacrarono il terreno come simbolico territorio nemico e gli diedero il nome di campus hostilis (“campo del nemico”). Dunque da quel momento la lancia iniziò ad essere scagliata non più verso il nemico reale, ma verso questo spazio rituale. Ciò rendeva comunque la guerra giuridicamente valida.

Ciò avviene in età repubblicana, ma i fetiales non sopravvivono al passaggio imperiale. Sotto Augusto di loro non si sente più parlare. L’imperatore, padrone assoluto della politica estera, non ha bisogno di una mediazione sacerdotale per legittimare la guerra, intesa come guerra giusta: la sua auctoritas basta da sola.