A memoria d’uomo, siamo sempre stati affascinati dai colori. I motivi possono essere pressoché illimitati: gusto estetico; simbolismo; richiamo ad un senso d’appartenenza; emotività, ecc. In virtù di ciò, la specie umana ha sperimentato molto, anzi, moltissimo per ricercare la novità cromatica all’ultimo grido. Dai pigmenti naturali agli albori dell’umanità, si è passati alla processazione di minerali, sostanze organiche e addirittura materiali sintetici. Tutto ciò in funzione della creatività artistica, che ci distingue dal resto del regno animale, e che ci spinge ad utilizzare nuove tonalità nei più svariati campi, non solo nel design e nell’arte. Sperimentare è la parola chiave, lo si è capito. Ebbene, alcuni impavidi del passato hanno “sperimentato” così arditamente da ottenere colori assurdi da materie prime altrettanto incredibili. Quelli che seguono sono alcuni esempi noti, o forse non così noti…

1- Lo gradirei… Color mummia grazie. La moda squisitamente ottocentesca per le mummie la conosciamo bene, inutile rivangare. Ciò che magari non si è detto nelle passate occasioni riguarda il fatto che con i cadaveri imbalsamati da secoli, se non da millenni, qualcuno pensò bene di farci dei colori. Stando ad una moltitudine di fonti, sembra che furono i farmacisti europei del primo Ottocento a macinare pezzi di mummia – custoditi gelosamente nei magazzini, in quanto principali rivenditori all’ingrosso del “bene” di lusso – e a ricavarne un pigmento a metà fra il violaceo e il marrone.

La scoperta non fece che aumentare il giro d’affari dietro la compravendita di mummie. I risvolti per la cultura, la storia e le ricerche archeologiche nel nord-est africano furono drammatici. Si arrivò addirittura a contraffare il color mummia, spacciandolo per tale quando in realtà si trattava di un pigmento derivato dalla macina di ossa animali (buoi, vitelli, vacche, ecc.). Con l’avvento del XX secolo e l’imposizione del sintetico nel variopinto mondo dei colori, decadde la consuetudine di sminuzzare i corpi mummificati a fini commerciali. Di quel periodo resta iconica la promessa del pittore preraffaelita Edward Burne-Jones, il quale “seppellì solennemente” il suo tubetto di colore marrone dopo aver scoperto l’origine del medesimo…
2- L’India, le mucche e quell’insospettabile giallo brillante. Uno su tutti, Johannes Vermeer, utilizzò nelle sue magistrali tele un giallo notevole per tonalità, brillantezza e resilienza cromatica. Era il XVII secolo e tra i circoli pittorici europei iniziava a diffondersi questa tonalità fra il dorato e lo zafferano. Proveniva dall’India, ma nessuno, almeno fino al XIX secolo, riuscì a capire davvero come venisse prodotto. Nessuno fino a quando le autorità del Raj britannico avviarono un’indagine. Al termine della stessa, si svelò l’arcano: quel meraviglioso, irradiante giallo proveniva dall’urina evaporata delle mucche, a loro volta alimentate unicamente a foglie di mango.

Per gli animali si trattava di una mezza specie di tortura – dati gli effetti non proprio benefici sulla loro salute – ma per gli allevatori si traduceva in una grande fortuna economica. Gli inglesi vietarono la pratica e la questione finì nel dimenticatoio. Il tempo trasformò la fattualità in leggenda popolare. Approfondite indagini di laboratorio condotte negli anni ’10 di questo secolo hanno riconfermato quanto denunciato dai britannici nel secondo Ottocento. Fu grazie all’urina delle mucche alimentate a mango e avarizia se Vermeer poté realizzare capolavori indiscussi dell’arte moderna. Oggi il giallo indiano continua ad essere prodotto, ma grazie a processi chimici artificiali.
3- Tekhelet, l’azzurro marino “prodotto” dal mare. La tradizione ebraica si avvale di un colore tendente all’azzurro acceso per decorare le vesti rabbiniche. Quel colore si chiama tekhelet ed ha una storia alquanto singolare. Fino al VII secolo, i pescatori di molluschi fecero fortune grazie al loro lavoro: sì, perché l’azzurro caro agli ebrei originava dalla bollitura e dalla spremitura dei suddetti animali marini.

La conoscenza del metodo andò perdendosi nei secoli (si dice a causa dell’espansionismo islamico, ma mi sembra una prospettiva cara alla corrente vicina alle istanze di Henri Pirenne, dunque storiograficamente obsoleta). In epoca moderna gli artigiani del tessile riacquisirono come per magia l’abilità di produrre il tekhelet. Know how che non è più svanito.
4- Vermiglio: croce e delizia. L’intensa tonalità del rosso vermiglio è data dall’elevata quantità di mercurio. Ciò rende questo tipo di colore tanto attraente quanto, potenzialmente, micidiale. Johann Wolfgang von Goethe nella sua Teoria dei colori dice che il vermiglio sia certamente energico, ma che possa rimandare a concetti quali la violenza, la brutalità, quindi la sopraffazione.

Goethe afferma dunque che il rosso vermiglio sia il colore preferito dai popoli cosiddetti “selvaggi”, coloro che ignorano il senso della civiltà e che anzi fuggono da esso. Stranamente il poliedrico intellettuale tedesco associa la tonalità ai bambini… Quale che sia il suo pensiero, c’è da dire come a lungo, nei secoli, si sia sottovalutata la tossicità del mercurio presente nel colore. Questo ha portato alla morte di tante persone entrate in contatto con lo stesso. Oggi, i curatori museali tengono gli oggetti che contengono vermiglio lontano da fonti di luce e calore per evitare di attivare le proprietà tossiche del materiale.
5- Il radio, un verde bello da morire. Nel 1898 Marie Curie scopre il radio, un metallo alcalino terroso, di colore bianco argenteo, molto raro, caratterizzato da un’intensa radioattività. Si realizzò che in determinate condizioni, il radio mutasse in una sostanza luminescente verde. Allora lo si sponsorizzò come miracoloso ingrediente da utilizzare in campo farmaceutico, estetico e persino alimentare.

Scoppiata la Grande Guerra, gli Stati belligeranti avviarono simultaneamente la produzione di una vernice verde a base di radio. Lo scopo? Far sì che le lancette degli orologi, le scritte su ordigni sensibili e più in generale i riferimenti numerici fossero visibili anche al buio. Nella filiera industriale lavorarono prevalentemente le donne, perché gli uomini furono impiegati al fronte. Donne che, inconsciamente, entrarono più volte a contatto con la sostanza radioattiva, ingerendola in alcuni casi. A causa di quel verde luminescente, molte lavoratrici persero la vita, con un picco di casi di avvelenamento da radio verificatosi negli anni ’20 del Novecento.