Nel cuore delle Ande, prima dell’arrivo di Pizarro e ben più in là nel tempo rispetto all’instaurazione dell’autorità imperiale del Sapa Inca, la popolazione nativa aveva sviluppato un sistema di comunicazione e di registrazione dei dati che, ancora oggi, suscita meraviglia e mistero: i Quipu (anche Quipo, o Kìpo). Il termine in lingua quechua significa letteralmente “nodo”.

In un mondo privo di scrittura alfabetica, questi complessi intrecci di corde colorate rappresentavano un vero e proprio linguaggio a sé. Una forma di conoscenza codificata che consentiva di amministrare un impero vasto e organizzato, esteso dal Cile all’Ecuador, dalle coste del Pacifico alle vette andine. Attenzione a non cadere in errore però. Benché gli Inca si avvalessero dei quipu, sappiamo come quest’ultimi preesistettero all’impero che si formò nel XII secolo e che per mano ispanica si sgretolò nel XVI.
Allora, cos’è un quipu? Esso era costituito da una corda principale, generalmente orizzontale, da cui pendevano numerose corde secondarie, a volte ulteriormente ramificate. Su di esse si annodavano fili più sottili, i cui nodi, colori e intrecci costituivano un sistema di registrazione basato sul principio decimale. La posizione dei nodi sul filo non era casuale: quelli più in basso rappresentavano le unità, quelli più in alto le decine, poi le centinaia e così via. Esistevano diversi tipi di nodo che indicavano valori diversi. I colori delle corde, invece, potevano specificare la natura dell’informazione. Ad esempio, corde gialle per il grano, rosse per i soldati, bianche per l’argento, e così via.

Era un linguaggio di simboli e quantità, ma anche di relazioni. Il modo in cui i fili erano legati tra loro, o il punto preciso da cui pendevano, contribuiva a definire il significato complessivo del messaggio. In questo sistema non esisteva la scrittura nel senso alfabetico del termine, ma un codice visivo e tattile straordinariamente complesso, che univa logica numerica, colore e materia.
All’interno della burocrazia incaica, i quipu erano interpretati da funzionari specializzati, i quipucamayoc, letteralmente “custodi dei nodi”. Essi erano i veri archivisti dell’impero, capaci di “leggere” i fili come un libro aperto. Ogni villaggio e ogni provincia aveva i propri quipucamayoc, che compilavano registri di popolazione, raccolti agricoli, tasse, risorse militari e tributi. Queste informazioni venivano poi trasmesse attraverso una rete di chaski, i celebri messaggeri di corsa dell’impero. Essi portavano i quipu da una regione all’altra lungo la rete stradale andina, lunga più di 30.000 chilometri. Su questa opera viaria prima o poi dedicheremo un approfondimento, lo prometto.

Grazie a questo sistema, l’amministrazione incaica poteva controllare e coordinare un territorio immenso, privo di un sistema di scrittura tradizionale ma dotato di una memoria collettiva affidata ai nodi e ai colori. I quipucamayoc avevano una formazione rigorosa e spesso venivano selezionati fin da giovani. La loro funzione era così cruciale che, secondo alcune cronache spagnole, “un intero villaggio poteva essere giudicato in base ai suoi quipu”.
Benché i quipu siano divenuti celebri come invenzione incaica, le loro origini sono molto più antiche. Alcuni reperti archeologici rinvenuti nella regione di Caral-Supe, datati al II millennio a.C., mostrano strutture di corde annodate che anticipano il sistema dei quipu. Le culture Paracas e Nazca, tra il I millennio a.C. e il I d.C., ne svilupparono versioni più complesse. Forse usate per scopi rituali o contabili. Fu tuttavia sotto l’Impero Inca, tra il XII e il XVI secolo, che il quipu raggiunse il suo massimo sviluppo e divenne uno strumento di governo essenziale.

Alcuni studiosi, come Gary Urton dell’Università di Harvard, hanno ipotizzato che oltre alla funzione numerica, i quipu potessero contenere informazioni linguistiche o narrative, codificate attraverso la combinazione di colori, torsioni e direzioni dei fili. Secondo questa teoria, i quipu non erano soltanto registri contabili, ma anche archivi storici e genealogici, forse persino cronache di eventi o testi rituali. Sebbene la prova di un vero e proprio “alfabeto dei nodi” non sia mai stata trovata, recenti ricerche digitali sui quipu conservati nei musei di Lima, Cuzco e Berlino stanno rivelando corrispondenze che suggeriscono un livello di complessità comunicativa superiore a quanto ipotizzato in passato.
Con l’arrivo dei conquistadores nel XVI secolo, il sistema dei quipu andò incontro alla violenta cancellazione. Gli spagnoli, incapaci di decifrarlo, lo giudicarono un mezzo “idolatrico” e pericoloso, sospettando che contenesse segreti religiosi o storie contrarie alla fede cristiana. I missionari, in particolare, ne ordinarono la distruzione sistematica, sostituendo i nodi con la scrittura alfabetica latina. Dei migliaia di quipu che dovevano esistere nell’Impero Inca, ne sopravvivono oggi poco più di mille, conservati in musei e collezioni sparse nel mondo.

Come ha scritto l’antropologo Frank Salomon, “ogni quipu è una forma di pensiero intrecciato, una mente che ha preso corpo nei fili”. La loro sopravvivenza, seppur frammentaria, ci ricorda che la scrittura non è l’unica via alla conoscenza, e che esistono linguaggi del mondo capaci di trasmettere con altrettanta efficacia la memoria di un popolo.




