Nel 2023 e nelle sale di tutto il mondo esce Killers of the Flower Moon, al momento in cui vi scrivo, l’ultimo sforzo artistico del regista Martin Scorsese. Il film ha riportato al centro dell’attenzione una vicenda che, per decenni, è rimasta relegata ai margini della memoria storica americana. La pellicola infatti ruota attorno a tre cardini tematici: la Nazione Osage, il petrolio sotto i loro piedi, e tutto ciò che si è disposti a fare per sfruttarne l’abbondante quantità. Il racconto prende avvio da Fairfax, cittadina dell’Oklahoma che negli anni ’20 del Novecento era un po’ sulla bocca di tutti gli imprenditori petroliferi statunitensi. La storia che Scorsese racconta è quella di un popolo nativo in piena ascesa economica, ma, paradossalmente, essa si trasforma in una specie di trappola mortale, attrazione mirabile per uno sciame di truffatori, doppiogiochisti e assassini. E la vera storia non è poi così diversa…

All’inizio del XX secolo, gli indigeni all’interno degli Stati Uniti vivevano una condizione abbastanza contraddittoria. Sconfitti sul piano militare, confinati in riserve e sottoposti a politiche coercitive, sembrava per loro non esserci spazio all’interno di un contesto federale. L’amministrazione di Calvin Coolidge (1923-1929) invertì la tendenza negativa. Nel 1924 da Washington si diede il via libera per la concessione della cittadinanza a tutti quei nativi che – pur dovendo rispettare dei requisiti tutto fuorché lineari – ne avrebbero fatto richiesta. Il riconoscimento fu tardivo, è vero, ma è altrettanto vero che fu simbolicamente rilevante.
Tra le tante nazioni native, gli Osage si distinguevano per una storia particolare. Originari delle regioni oggi divise fra Missouri, Arkansas, Kansas e Oklahoma, furono spinti progressivamente a sud-ovest fino a stabilirsi, negli anni ’70 dell’Ottocento, in un territorio dell’Oklahoma acquistato legalmente dai Cherokee. Territorio brullo, pianeggiante, con qualche macchia verde qua e là. Abbastanza per coltivare e darsi al pascolo delle bestie, insufficiente per sperare in grande. Siffatta analisi regge se si prende in considerazione ciò che si scorge al di sopra del suolo. Se si guarda sotto di esso, allora la narrazione cambia radicalmente…

Dalla premessa capite già dove si va a parare. Nel 1897 qualcuno vide cosa c’era sotto la terra e sorrise, eccome se sorrise. Sotto le colline aride della riserva Osage si celavano immense riserve di petrolio. Nel 1906, quando il governo cercò di ridefinire le proprietà nel territorio, la comunità Osage si vide assegnare 2.229 lotti individuali, corrispondenti ai membri registrati della nazione. Ma i reali tesori, ovvero i diritti estrattivi, rimasero una proprietà collettiva e, soprattutto, ereditari.
Un principio, quello dell’eredità dei lotti, capace di mettere in moto una vorticosa spirale di avidità. Le compagnie petrolifere versavano royalties altissime (piccola nota esplicativa: le “royalties” sono dei compensi che un ente terzo paga per lo sfruttamento di un bene, in questo caso risorsa naturale, di cui non detiene la proprietà). I proventi derivati dalle concessioni erano così elevati che nei Ruggenti Venti, qualche giornale definì gli Osage come “il popolo più ricco al mondo su base pro capite“. Che sia un’esagerazione o no, la realtà dei fatti per i nativi era fatta di automobili all’ultimo grido, vestiti raffinati, scuole private, e perché no, droghe, alcol e malaffare.

Non tutti erano pronti ad accettare che degli indigeni potessero amministrare simili patrimoni. Nel 1921, perciò prima dell’apertura di Coolidge e durante il mandato repubblicano di Harding, il governo federale dichiarò come molti Osage fossero essenzialmente privi della capacità di gestione dei beni. Allora impose loro dei tutori bianchi scelti tra avvocati, commercianti e uomini d’affari locali. In teoria avrebbero dovuto amministrare i conti dei loro assistiti; in pratica, ne controllavano ogni aspetto, finendo spesso per arricchirsi a loro spese.
Questo sistema creò l’ambiente perfetto per la corruzione e aprì la strada a un piano criminale ambizioso. Fatta la legge, si pensò non tanto all’inganno, quanto all’uso improprio della stessa. Non ci volevano dei geni, per carità. Si pensò quindi di appropriarsi dei privilegi minerari attraverso matrimoni combinati nella più lieta delle ipotesi, degradando in truffe e omicidi nel peggiore degli scenari.

Senza concentrarci sul dato dei raggiri o dei matrimoni opportunistici, puntiamo il focus sui soli casi d’omicidio. Fra il 1918 e il 1931 almeno 60 membri del popolo Osage morirono per atti dolosi. Sparatorie, accoltellamenti, attentati dinamitardi e avvelenamenti: andava bene un po’ tutto. Una soluzione restava sconosciuta alla maggioranza dei casi, eppure il filo conduttore era lo stesso: a pagare con la vita erano possessori di preziosi – perché redditizi – diritti minerari.
Nella prima metà degli anni ’20 emerse la figura di William K. Hale, un allevatore texano arrivato in Oklahoma in cerca di fortuna. Amabile in pubblico ma senza scrupoli, Hale costruì una rete di complicità che incluse sceriffi locali, medici corrotti e perfino membri della sua famiglia, come il nipote Ernest Burkhart. Se i nomi vi suonano familiari, è perché nella pellicola di Scorsese sono interpretati rispettivamente da Robert De Niro (Hale) e da Leonardo DiCaprio (Burkhart).

Il primo vero allarme sull’ecosistema malato scoppiò con la morte di Anna Brown nel 1921. Pochi mesi dopo morì anche sua madre, probabilmente avvelenata; altri parenti si videro coinvolti in intossicazioni o attentati premeditati. Ciò mentre il patrimonio di royalties finiva progressivamente nelle mani della sorella di Anna, Mollie Brown (Lily Gladstone nel film), sposata proprio con Ernest Burkhart. Hale aveva progettato di sterminare l’intera famiglia per arricchire il nipote e incassare polizze assicurative. Mollie stessa fu più volte avvelenata, ma sopravvisse.
Nel 1923 un altro episodio segnò l’opinione pubblica Osage. George Bigheart, figlio di uno dei principali negoziatori dei trattati con Washington, morì dopo aver bevuto del whisky contaminato. Dietro c’era lo zampino di Hale e Burkhart. Prima di spegnersi in ospedale, Bigheart riuscì a parlare con il suo avvocato, William Vaughan, al quale rivelò informazioni cruciali. Probabilmente delle parole che avrebbero incastrato le menti malefiche dietro i vari omicidi di Fairfax. L’avvocato non fece in tempo a tornare a casa: lo colse la morte, perpetrata per mano di un assassino anonimo. “Stranamente” le autorità locali non mostrarono interesse nell’indagare.
Il numero crescente di morti e il sospetto che la corruzione locale ne ostacolasse l’indagine spinsero il governo federale a intervenire. La questione fu affidata al Bureau of Investigation (BOI), futura FBI, allora impegnata nel tentativo di costruire una reputazione di efficienza sotto la guida di J. Edgar Hoover.
Gli agenti federali, infiltrati senza destare sospetti, ricostruirono lentamente la rete criminale. Nel 1926 furono incriminati Hale, Ernest Burkhart e altri complici. Ernest finì per confessare il suo ruolo negli omicidi della famiglia Brown, mentre Hale fu condannato all’ergastolo nel 1929. Entrambi ottennero la libertà condizionata anni dopo. Nonostante le condanne, molti delitti restarono senza soluzione. La scia di sangue si esaurì solo nel 1931.




