16.000 feriti, sommando i numeri dei Confederati e degli Unionisti, si ammassarono attorno ai boschi di Shiloh, teatro di una delle battaglie più cruente della guerra civile americana. Curioso che il termine ebraico “Shiloh” significhi “luogo di pace”. Lungo le verdi sponde del fiume Tennessee in quel 1862 la pace non fu altro che un lontano e sbiadito ricordo. Gli uomini, falcidiati dalle cannonate o dai proiettili, infilzati dalle baionette, attesero per due giorni nel fango il supporto medico, ovviamente rallentato da una marea umana in sofferenza come non se ne vedevano da tempo. Due giorni e due notti in cui accadde qualcosa di incredibile, inspiegabile per l’epoca e misterioso fino ai primi anni ‘2000. Le ferite dei soldati brillarono di luce propria. Le fonti lo chiamarono “Angel’s Glow”, letteralmente “Bagliore degli Angeli”. Forse il risvolto più curioso di una battaglia atroce, come quella di Shiloh in effetti fu.

Questa ebbe luogo in Tennessee tra il 6 e il 7 aprile del 1862 e vide contrapposte due armate nordiste, all’incirca 63.000 uomini, guidati dai generali Ulysses S. Grant e Don Carlos Buell, e una sola armata sudista, per un totale di 43.000 effettivi, condotta dai generali Johnston e de Beauregard. Una serie consequenziale di offensive e controffensive causò la disfatta dei Confederati e la morte di oltre 3.000 uomini. A questi si aggiunsero circa 16.000 fra dispersi e feriti. Un mattatoio al quale nessuno dei due eserciti era preparato.
Le ferite causate da colpi d’arma da fuoco o i tagli profondi inflitti dalle lame astate sui fucili erano un gran bel problema, è indubbio. Non meno preoccupanti erano le infezioni con cui i militi dovevano fare i conti. I solchi scavati nella carne diventavano in pochissimo tempo un confortevole rifugio per i batteri, ghiotti di tessuti danneggiati. Ad aggravare la situazione, il fatto che le difese immunitarie degli uomini al fronte fossero pesantemente intaccate da mesi di marcia forzata, perciò uno sforzo fisico debilitante, e da razioni da campo che di nutriente avevano solo la parvenza. Neppure i migliori medici fra le fila dei due eserciti potevano fare granché. Le conoscenze erano quelle che erano, in particolar modo in campo microbiologico. Le teorie sui germi erano ancora lontane dall’essere padroneggiate e gli antibiotici, beh, per quelli si doveva aspettare Fleming.

Una situazione drammatica, come si può ben comprendere, in cui però ci si accorse di una grande, enorme stranezza. Durante la prima notte di degenza, le ferite dei soldati immersi per metà nella fanghiglia brillarono di luce propria. Era impossibile non notarlo: troppo evidente il risalto della fonte luminosa in quell’ambiente scuro e malsano. Altro elemento stupefacente: coloro i quali presentavano queste ferite lucenti avevano un tasso di sopravvivenza maggiore rispetto agli uomini non interessati dal fenomeno. Ad evidenziarlo era soprattutto la rapida convalescenza ma anche la miglior condizione delle ferite, che sembravano più “pulite” agli occhi del personale medico di campo.
Si parlò dell’accaduto come un qualcosa di miracoloso, di inspiegabile, un prodigio da associare all’intervento divino. Forze mistiche e provvidenti, da dover ringraziare con qualche preghiera non appena possibile. Dal 1862 fino al 2001 il mitico “Angel’s Glow” è rimasto inquadrato nella storia americana (e in generale della medicina) come un evento straordinario, aggettivo da dover prendere alla lettera, perciò all’infuori della normalità costituita.

Nel 2001 un liceale di 17 anni, di nome Bill Martin, visitò il memoriale della battaglia di Shiloh con la sua famiglia. Caso volle che la mamma di Bill di mestiere facesse la microbiologa per l’USDA (United States Department of Agriculture) e che fosse esperta in batteri luminescenti. Il 17enne, venuto a conoscenza del cosiddetto “bagliore degli angeli”, fenomeno per cui le ferite infette dei soldati in quell’aprile del 1862 brillarono senza un apparente senso logico, propose alla madre un nesso fra l’accaduto storico e il suo campo di studi.
La curiosità di Bill sconfinò nella vera e propria ricerca scientifica. Assieme ad un compagno, tale Jonathan Curtis, e coadiuvati da un esperto microbiologo, il dottor McFall-Ngai, avanzò una teoria abbastanza credibile: e se il responsabile della luce fosse un batterio chiamato Photorhabdus luminescens? Praticamente questo batterio vive nel suolo in simbiosi con alcuni nematodi, che sono dei vermi microscopici. Quando infetta un organismo, rilascia una sostanza luminosa (una luciferasi) che emette luce blu, tendente al verde. Il batterio uccide altri microbi patogeni, risultando così paradossalmente benefico per la sopravvivenza dei soldati.

Così presentata, la teoria è sembrata essere attendibile. Eppure sono sorte delle domande affatto banali. Come mai solo una minima porzione dei soldati feriti ha presentato l’Angel’s Glow? Il gruppo di ricerca ha proposto uno scenario scaturito da un incrocio di fattori ottimali: le temperature fredde durante le notti della battaglia potrebbero aver abbassato la temperatura corporea dei feriti, favorendo l’attività del batterio che non sopravvive oltre i 37°C. Inoltre le ferite aperte, il fango e il terreno contaminato erano senz’altro un ambiente ideale per i nematodi e i batteri.
In questo modo si è venuti a capo dell’annoso enigma. Le ferite dei soldati sulle sponde del Tennessee brillarono a causa di un tipico fenomeno di bioluminescenza. Una volta che gli uomini in uniforme tornarono a godere di una salute stabile, perciò di una temperatura ordinaria, l’organismo si liberò dei batteri. Bill Martin e la sua squadra ci tennero però a specificare come il Photorhabdus luminescens non fosse per niente un antibiotico miracoloso. In alcuni casi la presenza del batterio comportò delle dolorosissime ulcere, le quali a loro volta causarono problemi ben più gravi. In ogni caso, i soldati che sopravvissero, seppur sfregiati, alla carneficina di Shiloh, non avrebbero dovuto ringraziare gli angeli, bensì qualcosa di molto, ma molto più piccolo.