Il comune di Engis, situato nella Vallonia belga, è un centro abitato di modeste dimensioni. L’assunto vale ad oggi, come valeva per la prima metà del XX secolo. La vita scorreva tutto sommato tranquilla, le persone andavano a lavorare nei vicini impianti industriali, e nessuno mai si sarebbe immaginato di vedere il proprio paesino al centro delle cronache nazionali ed europee per un episodio tanto tragico quanto – almeno inizialmente – misterioso. Episodio che collochiamo cronologicamente fra il 1° e il 5 dicembre del 1930, e che vede come protagonista indesiderata una nebbia letale, capace di portare con sé disagio e morte. Come fu possibile?

A prima vista quella che ho definito pocanzi “nebbia letale” appariva come una normalissima ed innocua bruma invernale. Da quelle parti, nella valle della Mosa, erano abituati a vederne periodicamente. D’altronde Engis sorgeva vicino al fiume, in una zona concava e stretta; un po’ di freddo e la condensazione è scontata. Il problema non fu tanto l’apparizione della densa nube, ma gli effetti che produsse quando investì il villaggio. Le persone uscite per le ordinarie mansioni giornaliere iniziarono a tossire con violenza, manifestare gravi problemi respiratori. Molti lamentarono bruciore agli occhi e vertigini.
In pochi capirono subito cosa stava accadendo. La memoria collettiva era ancora segnata dai gas asfissianti della Prima guerra mondiale, e la paura che qualcuno avesse rilasciato sostanze tossiche tornò a serpeggiare. Altri attribuivano la tragedia a un castigo divino (un classico). Quel che è certo è che Engis si svuotò. Porte e finestre vennero tappate con coperte e stracci, le poche maschere antigas disponibili riemersero dalle cantine, e tutti sperarono che bastasse aspettare.

Qui va specificata una cosa, tuttavia. Il fenomeno non era del tutto nuovo per la valle della Mosa. Nebbie “strane” si erano già verificate in anni precedenti, come nel 1897, nel 1902 e nel 1911, sempre accompagnate da episodi di asma, irritazioni e, talvolta, morti improvvise tra umani e animali. Ma il nesso con l’inquinamento non era ancora chiaro. La valle era fortemente industrializzata, vista la presenza di miniere di carbone, acciaierie, altiforni, fabbriche chimiche, impianti di zinco. All’epoca mancavano sia modelli atmosferici adeguati sia una cultura di analisi ambientale capace di collegare fenomeni meteorologici e sostanze inquinanti.
La tragedia del 1930 fu diversa per intensità e per conseguenze. La nebbia si addensò al punto da sembrare un muro lattiginoso; il peso delle particelle sospese impediva alla luce di filtrare, e l’aria, paradossalmente immobile, imprigionava ogni emissione. Tra il 1º e il 5 dicembre, 63 persone (altre stime riportano 67 vittime) inalarono gas tossici che nell’arco di pochi giorni condussero a morte. Altre centinaia svilupparono sintomi respiratori gravissimi.

Quando la nebbia finalmente si dissolse, il 7 dicembre, iniziarono le indagini ufficiali. L’ipotesi di un attacco chimico fu scartata: le autopsie non mostrarono tracce di gas usati in guerra. Le fabbriche vennero analizzate, ma anche qui emerse un dettaglio cruciale. Il grande impianto di zinco, accusato dai più, era fermo da mesi. E allora con chi prendersela?
La svolta arrivò da un’analisi molto più ordinaria, riguardante le emissioni domestiche. Nelle case della valle si bruciava carbone, spesso di bassa qualità, e le stufe e i camini, mal mantenuti, producevano grandi quantità di gas nocivi (monossido di carbonio, ossidi di azoto, anidride carbonica, acido fluoridrico e soprattutto diossido di zolfo). Fu questo l’elemento decisivo. Studi successivi dimostrarono che proprio il diossido di zolfo, combinato con l’umidità estrema e la totale assenza di circolazione atmosferica, si era trasformato in acido solforico nebulizzato, una miscela micidiale in grado di irritare violentemente i polmoni e provocare edema polmonare acuto.
Le concentrazioni misurate retrospettivamente erano sufficienti a risultare letali, specialmente per anziani, bambini e soggetti già debilitati. La “nebbia letale” fu la manifestazione estrema di un ambiente saturo di emissioni industriali e domestiche, imprigionate nella topografia chiusa della valle e trasformate dalla meteorologia in una nube tossica.

Il dramma di Engis ebbe un impatto profondo. Fu uno dei primi casi in cui la comunità scientifica poté collegare in modo diretto un evento meteorologico a un picco di mortalità. Quello che era accaduto nella Mosa avrebbe trovato un’eco ancora più drammatica nel “Grande Smog” di Londra del 1952, che in passato abbiamo già trattato. Una statua e una targa commemorative dei deceduti si ergono a Engis dal 2 dicembre 2000.




