Fotografia di anonimo, Pechino, Repubblica Popolare Cinese, primi anni ’60. Un uomo non più nel fiore dei suoi anni, con abiti modesti e occhiali spessi, si prende cura delle piante mantenendo un’espressione assorta e pacifica. Se non fosse per il fatto che già avete letto il titolo dell’articolo, sembrerebbe difficile immaginare che dietro quell’aspetto così umile si nasconda il “Figlio del Cielo”, il sovrano assoluto di una delle più antiche monarchie del mondo. Lui si chiamava Aisin Gioro Pu Yi, e la sua fu la storia dell’ultimo imperatore cinese, reinventatosi giardiniere.

Pu Yi nacque nel 1906 nella Città Proibita, discendente diretto della dinastia mancese dei Qing, che aveva governato la Cina dal 1644. Aveva appena due anni e mezzo quando, alla morte dell’imperatore Guangxu, fu proclamato sovrano. Troppo piccolo per comprendere il peso del titolo, divenne simbolo di un potere ormai al tramonto. Era il 1911 quando la rivoluzione cinese abbatté l’impero. Il suo ultimo rappresentante, un bambino, abdicò inconsapevole della portata del gesto.
Il nuovo governo repubblicano e nazionalista non volle tuttavia esautorarlo del tutto: gli concessero la permanenza entro le mura della Città Proibita in qualità di “imperatore in pensione“. Pu Yi divenne un prigioniero d’oro, circondato dalle vestigia di un passato dissolto.

Negli anni successivi, Pu Yi oscillò tra nostalgie monarchiche e ingenue speranze di restaurazione. Nel 1924, con la caduta del signore della guerra che lo proteggeva, finì per lui la reclusione dorata all’interno del palazzo imperiale di Pechino. Trovò rifugio prima nella concessione giapponese di Tianjin, poi in Manciuria. Qui, nel 1932, i giapponesi lo proclamarono “imperatore” (si fa per dire) dello Stato fantoccio del Manchukuo. In realtà egli non era che un burattino del militarismo nipponico: un uomo isolato, controllato, circondato da ufficiali che ne decidevano ogni gesto. La fine della Seconda guerra mondiale fu l’ennesimo tassello della sua sfortunata parabola storica. Nel 1945 finì sotto la supervisione cautelare sovietica e poi consegnato, questo nel 1950, alla Cina comunista.

Cominciò così la terza vita di Pu Yi. Di certo non la migliore auspicabile. Gli anni ’50 trascorsero all’insegna della detenzione e della rieducazione in pieno stile maoista. Rinchiuso nel campo di prigionia di Fushun, nel nord-est del Paese, passò quasi dieci anni a lavorare, studiare il marxismo e riflettere sul proprio passato. Secondo le sue memorie furono anni di umiliazione ma anche di progressiva trasformazione interiore. Nel 1959, in occasione del decimo anniversario della Repubblica Popolare Cinese, Mao Zedong gli concesse l’amnistia.
Riabilitato, Pu Yi si trasferì nella capitale, dove iniziò una vita nuova, umile e sorprendentemente serena. L’immagine che lo ritrae al Giardino Botanico di Pechino è una perfetta sintesi di questa metamorfosi. L’ex imperatore, che un tempo non poteva essere sfiorato nemmeno dai servitori, ora zappa la terra, annaffia le piante e si prende cura dei fiori. Diventò giardiniere e custode, mansione che svolse con dedizione quasi monastica.

A Pechino, Pu Yi lavorò anche come bibliotecario presso l’Istituto di Botanica e come membro della Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese, simbolo di una “rieducazione riuscita”. Si sposò per l’ultima volta nel 1962 con una donna molto più giovane, Li Shuxian, infermiera di professione, che lo accompagnò fino alla morte, avvenuta nel 1967 a causa di un cancro ai reni.




