Fotografia di Valentin Kuzmin, stazione ferroviaria di Jaroslavskij, Mosca, Unione Sovietica, dicembre 1986. Il fisico nucleare e attivista per i diritti umani, nonché vincitore del Premio Nobel per la Pace nel 1975, Andrej Sacharov, rientra a Mosca dopo sei anni di esilio interno.

La fotografia scattata nel dicembre del 1986 dal fotoreporter sovietico Valentin Kuzmin cattura un momento di straordinario valore simbolico, oltre che, chiaramente, umano. È il ritorno a Mosca di Andrej Dmitrievič Sacharov. Forse il nome non vi è nuovo. Fu il fisico nucleare e dissidente politico che, dopo sei anni, quasi sette, di isolamento forzato a Gor’kij presso un ospedale psichiatrico (l’odierna Nižnij Novgorod), poté finalmente rientrare nella capitale.
L’immagine lo mostra circondato da microfoni, dalle telecamere e dai giornalisti che si affollano intorno a lui alla stazione Jaroslavskij. Essi sono desiderosi di documentare quel rientro che segnava una delle aperture più significative dell’era di Michail Gorbačëv. Il volto stanco di Sacharov, incorniciato dal colbacco di pelliccia, emerge appena dal caos mediatico che lo avvolge. Ed è per lui una novità, il trambusto s’intende, dopo troppi anni di silenzio imposto.
Per comprendere appieno la portata di quel momento, occorre ripercorrere la parabola umana, scientifica, e non ultima, politica, di Sacharov. Figura certamente tra le più complesse del XX secolo. Nato a Mosca nel 1921, figlio di un insegnante di fisica, fu un talento precoce nelle scienze matematiche e, potevate scommetterci, fisiche. Nel secondo dopoguerra, il suo genio lo portò a lavorare al progetto sovietico per la costruzione della bomba all’idrogeno – volgarmente nota come Bomba Zar – di cui divenne uno dei principali artefici.

Nel 1953 ricevette tre volte il titolo di “Eroe del Lavoro Socialista”, la massima onorificenza civile sovietica. Ma già alla fine degli anni ’50, la sua coscienza scientifica cominciò a entrare in conflitto con la realtà politica e morale del Paese. Sacharov intuì che l’enorme potenziale distruttivo delle armi nucleari rappresentava una minaccia non solo militare, ma etica per l’umanità. Per carità, a noi sembra una banalità detta così. Non lo era assolutamente in quegli anni e, soprattutto, non lo era entro i confini dell’egida moscovita.
Risale al 1968 il suo saggio Pensieri sul progresso, la convivenza pacifica e la libertà intellettuale (un appello alla responsabilità morale della scienza e alla democratizzazione del sistema sovietico). In Occidente uscì e segnò la definitiva rottura con il Cremlino. Il padre della Bomba Zar diventava persona non grata.
Come “voce scomoda” interna al regime, fondò nel 1970, insieme alla moglie Elena Bonner, il Comitato per i diritti umani in URSS. Si espresse anche contro la persecuzione dei dissidenti e denunciò le deportazioni dei Tatari di Crimea. Ebbe il coraggio di manifestare contrarietà dinnanzi all’impunito trattamento disumano riservato ai prigionieri politici. Il Premio Nobel per la Pace del 1975 andò a lui, per l’impegno profuso nella protezione dei più basilari diritti umani.

Il prezzo di questa scelta fu altissimo. Nel gennaio del 1980, dopo aver condannato l’invasione sovietica dell’Afghanistan, lo stanco vertice sovietico privò Sacharov di ogni titolo e lo confinò ai margini della scena pubblica, lontanissimo dai riflettori internazionali. Visse sotto costante sorveglianza del KGB. Tradotto: telefoni controllati, corrispondenza censurata e visite rigidamente limitate. Persino i contatti con la moglie erano filtrati. Elena Bonner, divenuta la sua unica voce verso il mondo, trasmetteva clandestinamente i suoi scritti all’estero, mantenendo viva la causa dei diritti civili.
L’esilio di Sacharov rappresentò una delle pagine più cupe della repressione intellettuale sovietica. Egli veniva continuamente sottoposto a pressioni psicologiche, privato di cure mediche adeguate e condotto più volte in ospedali psichiatrici come forma di punizione politica. Tuttavia, non cessò mai di scrivere e di denunciare. Le sue lettere aperte a Brežnev e successivamente ad Andropov circolarono, alimentando la solidarietà internazionale nei suoi confronti.

Fu soltanto nel dicembre del 1986, con l’avvento di Michail Gorbačëv, e con lui del duetto glasnost’ – perestrojka, che la situazione cambiò radicalmente. Gorbačëv, deciso a restituire credibilità morale al Paese e ad allentare la repressione, telefonò personalmente a Sacharov per comunicargli la revoca dell’esilio. Quel ritorno da Gor’kij a Mosca, immortalato da Kuzmin, fu il riabbraccio di un uomo verso la libertà.
Nel 1989, ormai riabilitato, Andrej Sacharov fu eletto deputato del Congresso dei Popoli dell’URSS e continuò a battersi per la democratizzazione dello Stato, opponendosi anche ai tentativi di Gorbačëv di rallentare le riforme. Morì improvvisamente nel dicembre dello stesso anno, lasciando un’eredità morale profonda e duratura. Un’affermazione lo descrive più di ogni altra attestazione:
«Pace, progresso, diritti umani: questi tre obiettivi sono indissolubilmente legati. Non si può raggiungere uno trascurando gli altri».

 
            


