Il processo che ha portato il francese ad imporsi come lingua di prestigio internazionale, e di conseguenza come idioma di compromesso fra le genti d’Europa e del mondo per bene tre secoli, è il risultato di una relativamente lunga traiettoria – insieme politica, culturale e diplomatica – che affonda le radici nel XVII secolo e che si dispiega fino ai gemiti del XX. Appunto, la definisco una traiettoria perché come tale è la curva di un oggetto (il francese) rispetto al sistema preso come riferimento (l’insieme delle lingue globali). Per comprendere a pieno questo processo, non dobbiamo commettere l’errore di guardare alla Francia solo come uno Stato che in età moderna ha saputo mostrare i muscoli, conquistando ed espandendo i propri interessi. Oltralpe hanno dato vita ad una fucina di modelli culturali, amministrativi e intellettuali che, tra età barocca e Illuminismo, hanno influenzato tutte le altre élite europee.

Il quesito che mi pongo e al quale sottopongo voi lettori è di carattere storico. Dunque cerchiamo un punto di partenza che possa accontentare la nostra sete cronologica. Già sotto Luigi XIII, re di Francia dal 1610 al 1643, l’opera del cardinale Richelieu gettò le basi per la trasformazione del regno francese in un organismo politico fortemente accentrato, capace di proiettare all’esterno un’immagine di ordine, forza e autorevolezza.
Proprio Richelieu volle nel 1635 la fondazione dell’Académie Française. Forse l’avete già sentita nominare da qualche parte, e non mi sorprenderebbe. Si tratta di un’istituzione che non solo fissò norme linguistiche più coerenti rispetto alla grande varietà dialettale preesistente (pensiamo al borgognone, il piccardo, il provenzale o il guascone) ma contribuì a diffondere l’idea di un francese “pulito” – qualcuno direbbe anche “elegante” – adatto tanto a conversazioni di corte o alla prosa filosofica.
Questo elemento non deve passare in secondo piano! In un’Europa dove il latino sopravviveva come lingua dotta ma ormai percepita come rigida e antiquata, e dove idiomi come il tedesco e l’inglese erano o segnati da profonde divergenze regionali o ancora confinati in un arcipelago di isole scarsamente rilevanti sul piano globale, il francese si presentava come un idioma moderno, relativamente uniforme e facilmente adottabile dalle élite.
Poi arrivò lui, il più famoso monarca di tutti i tempi: Luigi XIV di Borbone (1643-1715). Fu sotto il regno de Le Roi Soleil che la predisposizione assunse i connotati di una vera e propria egemonia culturale. Pensiamo semplicemente a Versailles. Con la sua organizzazione cerimoniale e il suo apparato spettacolare, diventò la vetrina del prestigio francese.
Tutto ciò accadeva al posto giusto e al momento giusto; ovvero in un’epoca in cui la cultura e la politica erano strumenti complementari del potere. Quindi l’imitazione dello stile francese, nelle arti come nella moda, nella gestione della corte e persino nei rituali del quotidiano, divenne quasi un obbligo per chiunque aspirasse a far parte delle classi dirigenti europee. In questo contesto l’uso del francese si diffuse con naturalità tra aristocratici, diplomatici e funzionari, diventando la lingua delle relazioni internazionali.

Apparve normalissimo condurre i negoziati di pace della guerra di successione spagnola in francese. La redazione originale del celebre Trattato di Utrecht (1713), per capirci, è in francese. Questa fu, se vogliamo, la conferma del francese come lingua franca d’Europa (e del mondo; non accusatemi di eurocentrismo per favore). Il fenomeno si ripeté nei trattati successivi con regolarità. A tal punto che la lingua di Luigi XIV venne percepita, fino all’inizio del XX secolo, come l’idioma naturale della diplomazia.
Poi sì, c’è anche il capitolo dedicato al colonialismo, fenomeno parallelo che accentuò la dimensione globale della lingua francese. Africa occidentale, Nord America, Sud-Est asiatico, Caraibi, tutti luoghi in cui nacquero élite amministrative bilingui o del tutto francofone, spesso educate in scuole modellate sul sistema europeo. Questi processi rafforzarono l’idea di una lingua portatrice di modernità e razionalità, facilmente associabile ai valori dell’Illuminismo. Non è un caso che, tra la fine del Seicento e la metà dell’Ottocento, filosofi come Cartesio, Montesquieu, Voltaire o Rousseau divennero voce autorevole non solo in Francia ma in quasi tutto il continente.
La forza del francese come lingua franca rimase intatta anche quando le fortune militari di Parigi iniziarono a declinare. La stagione rivoluzionaria prima e le guerre napoleoniche poi mantennero alta la sua visibilità. Perfino gli avversari di Napoleone, una volta tornati alle condizioni di equilibrio politico, continuarono a impiegare il francese nei protocolli ufficiali.
Trattati come quello di Parigi del 1856, che chiuse la guerra di Crimea, confermarono l’abitudine diplomatica. Ma nell’arco della prima metà del Novecento, una serie di mutamenti geopolitici che conosciamo benissimo iniziò a scalfire questa posizione. E allora scomodiamo l’ascesa economica prima, militare dopo, degli Stati Uniti. Così come la loro influenza culturale crescente e il ruolo cruciale giocato nelle due guerre mondiali. Beh, sono cose che inevitabilmente favorirono l’avanzata dell’inglese.

Nel 1919 il Trattato di Versailles venne redatto sì in francese ma anche in inglese. Era il riflesso di un nuovo e incombente equilibrio linguistico. Dopo il 1945, la creazione di organismi internazionali come le Nazioni Unite rese il predominio dell’inglese di fatto inevitabile. La popolarità dell’inglese come lingua della scienza, del commercio e della diplomazia economica, unita all’espansione globale dell’intrattenimento angloamericano, hanno fatto il resto.
Nonostante il declino della sua antica centralità, il francese conserva ancora oggi un ruolo significativo. Con oltre 300 milioni di parlanti e un forte radicamento istituzionale (cito solamente la Corte Internazionale di Giustizia, la NATO, e la stessa Unione Europea) rimane una lingua dalla tradizione giuridica solida, dalla prosa diplomatica precisa e dalla cultura prestigiosa. La sua lunga “traiettoria” storica dimostra come una lingua possa diventare un vettore di potere ben oltre il suo territorio d’origine. Altresì come possa trasformarsi in uno strumento di comunicazione globale grazie all’intreccio di fattori determinanti: forza politica, splendore culturale, autorevolezza intellettuale.




