Nel Medioevo europeo, la figura del gatto attraversò una delle più radicali metamorfosi simboliche della storia culturale occidentale. Da creatura ammirata e quasi sacralizzata nell’antichità, divenne un animale sospetto, ambiguo e persino demoniaco, oggetto di paure collettive e allegorie morali. Tale mutamento di percezione trovò una delle sue espressioni più eloquenti proprio nell’arte, e in particolare nei manoscritti miniati, dove i gatti appaiono spesso deformati, umanizzati o raffigurati con tratti volutamente grotteschi.

Sia chiaro, queste rappresentazioni non erano frutto dell’incompetenza degli artisti, come talvolta si è creduto, ma rispondevano a una precisa logica simbolica e teologica. Gli amanuensi medievali non cercavano di riprodurre la realtà in modo naturalistico, bensì di interpretarla alla luce della fede e del pensiero morale cristiano. L’immagine aveva la funzione di veicolare un messaggio spirituale, non di descrivere fedelmente il mondo terreno. Ogni forma, colore o gesto era carico di significato, parte di un linguaggio iconografico condiviso.
Nel caso del gatto, questo linguaggio si radicava in un profondo mutamento culturale avvenuto tra tarda antichità e alto Medioevo. Nelle civiltà politeiste, il gatto era considerato un animale nobile e misterioso. Scontato il caso dell’Egitto, ma non per questo ignorabile. Il felino era sacro alla dea Bastet, simbolo della fertilità e della protezione domestica. Nel mondo greco-romano, accompagnava spesso le divinità femminili come Artemide o Diana, incarnando la libertà, la grazia e la sensualità. Tuttavia, quando il cristianesimo divenne religione dominante, questi attributi si trasformarono in segni di pericolo.

Il Medioevo cristiano ereditò dal mondo antico l’associazione tra gatto e femminilità, ma la reinterpretò in chiave morale e negativa. L’animale che in precedenza era stato simbolo di indipendenza e sensualità divenne emblema dei stereotipati vizi femminili, dunque la lussuria, la vanità, l’infedeltà. In un contesto teologico dominato dal modello della Vergine Maria, la donna ideale doveva essere docile, pura, sottomessa all’ordine divino. Tutto ciò che evocava libertà e desiderio, come il comportamento felino, appariva sospetto. Non stupisce, dunque, che nelle miniature il gatto assuma spesso espressioni maliziose, sguardi obliqui o pose contorte, che ne sottolineano la natura ambigua e peccaminosa.
A questa lettura si aggiunse, a partire dal XII secolo, un ulteriore elemento: la demonizzazione religiosa. Diversi testi teologici e inquisitoriali, culminati nella bolla Summis desiderantes affectibus di Innocenzo VIII (1484), identificarono il gatto, soprattutto quello nero, come compagno del diavolo e delle streghe. Si credeva che i demoni potessero assumere sembianze feline per ingannare i credenti, e che gli eretici, gli ebrei e le streghe potessero trasformarsi in gatti per introdursi nelle case dei cristiani. In questo intreccio di superstizione e misoginia, il gatto divenne così una figura liminale, sospesa tra il mondo umano e quello infernale, tra il sacro e il profano.

L’arte, che nel Medioevo era il principale veicolo di conoscenza per un popolo in gran parte analfabeta, traduceva visivamente tali convinzioni. Nei margini dei manoscritti, i gatti compaiono spesso deformi. Hanno corpi allungati, muscoli innaturali, facce dai lineamenti umani, occhi spalancati o dentature sporgenti. A volte sono raffigurati nell’atto di rubare il cibo, di cacciare un topo (che a sua volta simboleggia il peccato), o di accompagnare figure di streghe e demoni. In altri casi, vengono antropomorfizzati, partecipano a banchetti o combattono duelli come fossero cavalieri grotteschi.

Eppure, accanto a questa visione cupa e demonizzante, esisteva anche un’altra realtà più quotidiana e concreta. Nei monasteri, i gatti erano tollerati e perfino apprezzati per la loro utilità pratica. Tenevano lontani i topi dai preziosi manoscritti e dai granai. Impronte d’inchiostro lasciate da zampe feline su codici medievali testimoniano la loro presenza nei scriptoria. In alcune miniature più benevole, il gatto compare accoccolato ai piedi di un monaco o mentre gioca con un gomitolo, segno di una convivenza pacifica e affettuosa.
La rappresentazione deformata, dunque, non esprimeva un’esperienza diretta negativa, ma piuttosto una costruzione culturale: una proiezione collettiva delle paure, dei desideri e delle contraddizioni del mondo medievale.




