Almanacco del 2 settembre, anno 1792: nella Francia rivoluzionaria esplode la violenza più esasperata. Nell’arco di cinque giorni, dal 2 al 6 settembre, vengono trucidati sommariamente oltre 6.000 carcerati, supposti lealisti. La storiografia francese ricorda quegli eventi così tetri come “Les massacres de Septembre”, i “massacri di settembre”. L’episodio resta ad oggi uno dei più controversi della storia rivoluzionaria transalpina, poiché mostra – in modo anche abbastanza brutale – quanto facilmente il fervore politico e il terrore del complotto possano sfociare in violenza incontrollata. Un insegnamento che ancora nel nostro presente può tornare utile.

Le motivazioni storiche che permisero i massacri di settembre furono molteplici, anche se concatenate fra loro. Agli inizi di quel mese la Francia col berretto frigio viveva uno dei suoi momenti più critici. La monarchia era appena caduta con l’insurrezione del 10 agosto. Aveva fatto seguito l’assalto delle Tuileries e l’arresto di Luigi XVI e della sua famiglia. Ma la Rivoluzione era tutto fuorché completa.
Oltre i confini dello Stato francese si imponeva la minaccia di Prussia e Austria. Minaccia che diveniva sempre più prossima, fino a varcare le stesse frontiere francesi. A Parigi giungevano delle notizie per nulla rassicuranti. Longwy, sulla Mosella, era caduta e Verdun – proprio quella Verdun – soffriva per l’assedio posto in essere dai prussiani. Persa la città-fortezza, la strada per la capitale sarebbe stata spianata.
All’interno, invece, la paura era rivolta verso i cosiddetti “nemici della patria”: nobili, preti refrattari, sospetti monarchici che riempivano le carceri della città. Molti parigini erano convinti che, se gli eserciti stranieri fossero entrati in città, questi prigionieri si sarebbero uniti agli invasori per abbattere la Rivoluzione. L’idea del “complotto interno”, che già aleggiava dal 1789, si saldava adesso con il pericolo esterno. Ingredienti adatti per una ricetta orrorifica. Il panico collettivo fece il resto.

Questo il clima che accolse i tragici eventi del 2-6 settembre 1792. Il sedicesimo giorno del mese fruttidoro (2 settembre se non siete dei rivoluzionari…), mentre Parigi organizzava la partenza dei volontari verso il fronte, la folla in rivolta, armata di picche e baionette, si diresse verso le carceri della capitale. Trascinarono i detenuti di fronte un tribunale improvvisato, presieduto dal rivoluzionario Stanislas-Marie Maillard, che si limitava a un giudizio sommario. Eri un patriota? Lasciavi indenne il tribunale. Diverso il caso in cui la corte ti giudicava monarchico o controrivoluzionario. Perché una volta suppposto tale giudizio, la folla sarebbe divenuta carnefice e detentrice del tuo destino.
Dopo la “sentenza”, i prigionieri procedevano verso l’esterno, dove li attendeva il popolo assetato di sangue. Poi l’orgia di violenza che si tramutava in linciaggio senza fine. Non si trattò solo di nobili o di alti prelati. Si stima che circa la metà dei detenuti di Parigi, quasi 5.000 persone, andarono incontro a questo triste destino. Le carceri colpite furono molte, dall’Abbaye, all’Hôtel des Carmes, passando per la Force, la Conciergerie, lo Châtelet, la Salpêtrière.

Come anticipato, non ci si accanì solo con aristocratici e chierici. Le esecuzioni colpirono invero un’ampia varietà di persone, tra cui anche medio borghesi, artigiani, più in generale i non proletari. Ci furono altresì vittime eccellenti. Famoso è il caso di Maria Teresa Luisa di Savoia-Carignano, principessa di Lamballe, intima amica della regina Maria Antonietta, uccisa con una ferocia che scandalizzò persino molti rivoluzionari. Un’altra categoria particolarmente colpita furono i preti “refrattari”, cioè coloro che si erano rifiutati di prestare giuramento alla Costituzione civile del clero. Tra loro numerosi vescovi e religiosi, che più di un secolo dopo, nel 1926, sarebbero stati beatificati da papa Pio XI come martiri “in odium fidei”.
Molti erano detenuti comuni, accusati di reati minori o addirittura persone arrestate solo per sospetti. Il clima era tale che anche famiglie con donne e bambini finirono travolte dalla furia collettiva.
La questione più controversa riguarda il ruolo dei principali leader rivoluzionari. Jean-Paul Marat, nel suo giornale L’Ami du peuple, giustificò apertamente le esecuzioni, definendole “atti di giustizia popolare” necessari per eliminare i traditori interni. Al contrario, Georges Jacques Danton, allora ministro della Giustizia, pur non essendo stato il diretto organizzatore, fu accusato di aver lasciato correre, con la celebre frase: «Dobbiamo osare, osare ancora, sempre osare». Non intervenne per fermare i massacri, consapevole forse che un gesto di repressione avrebbe scatenato una rivolta dei sanculotti. Robespierre, invece, mantenne un atteggiamento ambiguo: pur criticando l’inerzia del ministro Roland e condannando linciaggi non regolamentati, difese l’idea che il popolo avesse agito per “salvare la Rivoluzione”.

Dietro la spontaneità della folla, alcuni storici hanno ipotizzato anche una regia occulta. Uomini come Tallien, Huguenin o Méhée de La Touche potrebbero aver spinto consapevolmente all’esplosione della violenza, alimentando il clima di sospetto. I massacri durarono fino al 6 settembre 1792, con un bilancio di circa 5.000 vittime solo a Parigi, a cui si aggiunsero episodi simili in altre città come Orléans, Reims e Meaux. Ecco che si parla di circa 6.000 vittime.
Le conseguenze ci furono e apparirono, almeno da un punto di vista istituzionale, drastiche. Sì, perché in Francia le stragi settembrine rappresentarono un punto di non ritorno. La Rivoluzione aveva mostrato il volto del Terrore prima ancora che fosse istituzionalizzato. Poi ci fu la nascita del Tribunale rivoluzionario nel marzo 1793, una specie di risposta indiretta al trauma dei massacri. Si volle dare un’apparenza di legalità alle condanne, evitando altri linciaggi incontrollati. Su questo punto spinse parecchio Robespierre.
Fuori i confini francesi, i massacri suscitarono orrore e indignazione. La Francia rivoluzionaria apparve come un Paese in preda alla barbarie, e questo contribuì a rafforzare le coalizioni monarchiche europee contro di essa. Col tempo, gli stessi rivoluzionari guardarono ai massacri con disagio. I girondini li usarono per accusare i giacobini, mentre i termidoriani, dopo la caduta di Robespierre, ne fecero uno degli argomenti della propaganda antigiacobina.