Fotografia di Paolo Pedrizzetti, via De Amicis, Milano, Italia, 14 maggio 1977. Un ragazzo incappucciato, con le gambe piegate, impugna una pistola con entrambe le mani e spara in mezzo alla strada. È forse una delle raffigurazioni più note di quelli che chiamiamo anni di piombo. In una sola immagine è concentrata tutta la violenza di quell’epoca, apparentemente lontana, ma non così tanto da doverne parlare con distacco emotivo. La fotografia ha fatto la storia del nostro Paese per diversi motivi. Nella sua immediatezza visiva condensa l’immagine di una nazione spaccata, in cui la prepotenza ideologica, prima ancora che politica, era uscita dalle piazze e dai cortei per diventare vera e propria guerra urbana.

Paolo Pedrizzetti, tristemente venuto a mancare nel 2013, fu l’autore dello scatto in via De Amicis, Milano, emblematico non solo dei disordini cittadini, ma della brutalità degli anni di piombo in Italia. E il 1977 in questo senso fu un anno cruciale. La stagione della contestazione studentesca del ’68 era ormai alle spalle, e una nuova generazione di giovani, cresciuta tra precarietà, disoccupazione e la crisi delle ideologie, cercava forme radicali di lotta. Collettivi studenteschi così come gruppi extraparlamentari animavano le piazze, mentre le Brigate Rosse e altri gruppi armati conducevano azioni sempre più sanguinose.

Il 14 maggio 1977, nel capoluogo lombardo, una manifestazione fu organizzata da Autonomia Operaia per protestare contro l’arresto di due avvocati vicini al movimento, difensori dei militanti di Soccorso Rosso. Quella che iniziò come protesta divenne presto scontro a fuoco. La città si trasformò in un terreno adatto alla guerriglia, con bottiglie incendiarie, barricate improvvisate e pistole sfoderate. Pedrizzetti seppe cogliere l’impatto storico dell’istante con la sua macchina fotografica.

L’immagine è dinamica. La definirei quasi brutale, anzi, quasi cinematografica. Non ci sono slogan o bandiere a fare da sfondo. No, c’è solo il volto coperto e il gesto violento nella sua crudezza, nella sua nuda banalità – per dirla con le parole della Arendt. Il giovane immortalato era Giuseppe Memeo, allora diciottenne. La foto lo rese subito famoso come il simbolo della “generazione armata”. In realtà, non fu lui a uccidere il vicebrigadiere Antonio Custra, colpito mortalmente in via De Amicis quel giorno. L’assassino fu un altro militante, Mario Ferrandi, riconosciuto solo anni dopo grazie ad altre fotografie rimaste a lungo nascoste. Ma nell’opinione pubblica, l’immagine di Memeo, il Terun, rimase legata indissolubilmente a quella morte.

Lo si è nominato, ed è giusto dedicargli un paragrafo. Antonio Custra aveva 22 anni. Era sposato, la moglie incinta. Avrebbe partorito poco dopo la dipartita del marito. La sua morte, subito seguita da versioni distorte – si disse inizialmente che fosse stato colpito da “fuoco amico” della polizia – divenne uno spartiacque emotivo.
L’immagine fece il giro del mondo, finendo sulle prime pagine dei giornali stranieri. Per l’opinione pubblica internazionale, quella foto riassumeva perfettamente la spirale di violenza che stava travolgendo l’Italia.